lunedì 28 aprile 2014

Ipotesi su Signa 1968

Per chi non ha letto il libro e per chi lo ha letto, ma ha voglia di tornarci su, elenco di seguito le ipotesi sul duplice omicidio di Signa che ho analizzato.

Il delitto di Signa può essere stato commesso:

1) da Stefano Mele, da solo, come decisero, e più di una volta, i giudici [Ipotesi: il marito tradito];

2) da un gruppo di persone (due o più) a vario titolo coinvolte nella vita di Barbara Locci: amanti della donna (Francesco o Salvatore Vinci: ipotesi 2.1) o componenti della famiglia Mele (ipotesi 2.2); con la partecipazione o quanto meno alla presenza di Stefano Mele – con ciò comprendendo anche la possibilità di un killer assoldato da uno dei soggetti di cui sopra o una fusione dei casi 2.1 e 2.2, che per comodità chiamiamo 2.3: famiglia Mele in combutta con uno dei Vinci (nello specifico, Salvatore) [Ipotesi: i fratelli rivali, ipotesi: il clan familiare; ipotesi: il teorema Torrisi];

3) da un amante geloso della Locci, rimasto sconosciuto [Ipotesi: l'amante segreto];

4) da un soggetto non identificato che intendeva uccidere Antonio Lo Bianco, vero obiettivo del delitto, nel quale sarebbe rimasta coinvolta, per sua somma sfortuna, Barbara Locci [Ipotesi: pista siciliana];

5) dal Mostro di Firenze, chiunque egli sia stato (Pacciani, Lotti, il medico di Perugia, il farmacista, qualcuno rimasto sconosciuto), comunque estraneo all’ambiente, come primo dei delitti seriali [Ipotesi: esordio del serial killer].

Si dà per scontata l’unicità dell’arma ed escluso il depistaggio (nel senso di una sostituzione dolosa di bossoli e perizia balistica per far risultare un collegamento – in realtà inesistente – tra il delitto del 1968 ed i successivi ). Viene inoltre considerato come, se non certo, quanto meno molto probabile l’accompagnamento di Natalino dal luogo del delitto a casa De Felice, di cui si è ampiamente trattato. Si parla solo del 1968, volutamente ignorando il seguito della storia.

Ci sono delle ipotesi che ho trascurato?

domenica 27 aprile 2014

Delle minacce e dell'uomo in motorino (2)

E' facile pensare, anche se non sta scritto esplicitamente da nessuna parte, che l'uomo che seguiva Barbara in motorino fosse lo stesso che aveva minacciato di spararle mentre era in macchina con un (altro) uomo. L'episodio, pur oggetto, come si è visto, del dibattimento in aula nel 1970, sembra essere stato dimenticato nelle indagini successive, per quanto già a prima vista appaia significativo. Salvo errori, né Torrisi né Rotella lo citano.

Sia come sia, una cosa sembra certa; Barbara Locci, in occasione del preludio ad un incontro amoroso che poi non avvenne, nell'agosto del 1968, (Fiera di Mezzagosto, quindi meno di una settimana prima del delitto) in una stradina adiacente al cimitero di Lastra a Signa (non quello nella cui prossimità avvenne l'omicidio, che è a Castelletti di Signa, a meno che il teste non ricordi male) disse di temere di essere sparata mentre stava in macchina con un uomo; quanto paventato puntualmente avvenne pochi giorni dopo. Come questo si accordi con l'ipotesi, fatta da alcuni, di un delitto casuale, di natura maniacale, ad opera di un estraneo, l'esordio insomma del serial killer noto come Mostro di Firenze, è al di là della mia comprensione.

Ma siamo onesti: la versione sopra descritta, in fondo, venne decisamente affermata solo da Perugini e Canessa, che identificarono il serial killer estraneo in Piero Pacciani, e parzialmente accolta nella sentenza del 1994 di Ognibene, pur senza trarne la debita conseguenza della condanna del Pacciani anche per quel primo delitto. L'avvocato Filastò, invece, pensa sì ad un assassino unico per tutti i delitti 1968-1985, ma sembra ritenere che costui fosse uno spasimante segreto o respinto dalla donna (sarebbe invero strano, vista le estrema disponibilità di Barbara, che emerge da numerosi racconti provenienti da più fonti), non quindi estraneo etimologicamente alla donna, ma che potrebbe essere stato sconosciuto al gruppo familiare.

Antonio Segnini, da parte sua, ritiene che il delitto sia opera del clan familiare, ma vi sia un testimone (guardone-innamorato della Locci dai tempi della Romola) che raccolga la pistola gettata via, trasformandosi poi, nel corso degli anni, nel Mostro di Firenze; ipotesi affascinante, ma, come tutte del resto, indimostrabile.

sabato 26 aprile 2014

Delle minacce e dell'uomo in motorino


Bisognerebbe fare maggiore chiarezza sulle ipotetiche minacce rivolte a Barbara Locci da un misterioso (ma non poi tanto) uomo in motorino. Secondo l'avv. Filastò (Merende infami, pag. 150), fu il teste Giuseppe Barranca a parlarne, riferendo che la donna gli avrebbe detto di essere seguita da un uomo in motorino. In realtà, sembrerebbe che l'informazione provenisse dallo stesso Stefano Mele, che la attribuisce al Barranca, tramite un tenente dei CC che potrebbe essere, ma non è nominato, il Dell'Amico.

Barranca, cognato della vittima maschile, fu interrogato nel dibattimento in corte di Assise (marzo 1970), precisando, a domanda della difesa, che "mai aveva avuto occasione di invitare la moglie del Mele al cinema, ricevendone un rifiuto con la scusa che c'era uno con il motorino che la seguiva; e mai – pertanto – avrebbe potuto fare quel discorso al Mele dopo l'uccisione della moglie nella caserma dei CC". Al che il Mele – che evidentemente aveva riferito la cosa ai propri difensori-, chiede la parola e "ricorda al teste di aver appreso da lui quanto sopra riferito". Il Barranca riprende dicendo di non averlo detto lui al Mele, ma che una cosa del genere gliel'aveva detta la Barbara una sera in cui erano insieme in occasione della fiera di Lastra a Signa nell'agosto del '68; avendola invitata ad avere rapporti con lui, la donna gli disse: "Ci potrebbero sparare mentre siamo in macchina". Il P.M., che ben sa che non Mele, ma un'altra persona coinvolta nel processo andava in giro in motorino, coglie la palla al balzo, facendo dire al teste: "la donna non disse che c'era qualcuno che ci seguiva in motorino; io riferii il fatto al tenente dei CC, mentre mi trovavo con gli altri congiunti nella camera mortuaria a Firenze, in una conversazione e non in sede di interrogatorio". Ulteriormente, a scanso di equivoci, il teste chiarisce che "quando la donna gli parlò di quelle minacce, non pensò affatto che chi potesse sparare fosse il V. Francesco, del quale non può dire se sia prepotente o violento". Filastò afferma che qualora il molestatore fosse stato uno dei due fratelli V., Barbara ne avrebbe fatto esplicitamente il nome al Barranca, che li conosceva; ma questo mi sembra molto ipotetico. Il giornalista della "Nazione" Fulvio Apollonio, nel suo resoconto dell'udienza, attribuisce a Barranca ambedue le affermazioni che sarebbero state fatte dalla donna: che qualcuno la seguiva in motorino e di temere che le sparassero mentre era in macchina (sottinteso, in compagnia di un uomo); si tratta di una probabile confusione tra l'affermazione positiva (potrebbero spararci in macchina) e quella negativa (non mi disse che c'era qualcuno che ci seguiva in motorino) entrambe fatte dal teste nel corso della deposizione. Si noti che c'è una sottile differenza tra il concetto di essere solitamente seguita da uno in motorino e quello di essere stata seguita in quella precisa occasione, mentre si trovava col Barranca; e la testimonianza non fa del tutto chiarezza sul punto.

La testimonianza Barranca deve essere coordinata con quella di Salvatore V., che riferisce che Barbara gli aveva detto di essere stata minacciata da Francesco affinché non andasse con altri uomini e di essersi accorta di essere stata talvolta seguita; ma anche qui, negli atti a mia conoscenza, non si parla esplicitamente di motorino. Può sembrare che il particolare del motorino sia stato aggiunto dal Mele stesso, che, come è noto, sosteneva di essere stato trasportato sul luogo del delitto da Francesco V. appunto in motorino. Ma è altrettanto possibile che il riferimento al motorino sia stato volontariamente omesso dal teste Barranca poiché avrebbe puntato in una direzione troppo precisa. Lo stesso Francesco V. , pur pretendendo di aver allentato in quel periodo la relazione con la donna (il che non è confermato da nulla), ammise di essere geloso di Barbara; del resto la cosa era talmente nota da non poter essere smentita credibilmente. Disse inoltre di aver sorpreso la donna con un altro Francesco alle Cascine di Lastra a Signa, ma casualmente, non per averla seguita. Sta di fatto che si sa bene che vi era (almeno) un amante geloso che girava in motorino armato di pistola. Coincidenze?

(SEGUE)

giovedì 24 aprile 2014

I soldi dell'assicurazione



Che fine fecero le famose 480.000 lire che Stefano Mele si ebbe dall'assicurazione a risarcimento di un incidente in cui era stato coinvolto sul motorino guidato da Francesco V.? Il denaro era stato riscosso da Mele accompagnato dal cognato a Prato il 21 giugno 1968; ma due mesi dopo di quei soldi rimarranno soltanto 27.000 lire conservate nel borsellino di Barbara Locci e non toccate dall'assassino (o assassini). Mele disse di aver consegnato i soldi alla moglie per la gestione di casa.

Le prime indagini e la sentenza del 1970 daranno grande importanza all'aspetto economico; Stefano avrebbe ucciso la moglie non per gelosia, ma perché aveva sperperato quel denaro. Lo stesso Stefano, accusando in prima battuta Salvatore V., gli attribuirà un debito nei suoi confronti (e quelli della moglie), che il V. si sarebbe offerto di saldare uccidendo per suo conto la donna; stiamo parlando degli stessi soldi, ma in realtà quello che si trovò furono cambiali per un piccolo importo, ma a favore di Salvatore e a debito di Stefano. Le dichiarazioni di Salvatore V. sentito dal PM il 24 agosto 1968 (sarà immediatamente dopo scagionato dallo stesso Stefano) e ribadite in corte di assise sembrano, a leggere la sentenza Rotella, confermate dai documenti. D'altra parte, sembra ben strano che la famiglia Mele, trovatasi improvvisamente omaggiata di una somma notevole per l'epoca e per la propria condizione sociale, abbia non solo speso tutto, ma contratto ulteriori debiti. Per quanto si ripeta che Barbara sperperava i soldi di casa con i suoi squattrinati amanti, spendere in due mesi scarsi di divertimenti (e quali, poi?) l'equivalente della paga di cinque mesi del marito (calcolo fatto dal G.I. Rotella) sembra troppo.

C'è dunque chi pensa che i soldi siano stati destinati all'acquisto clandestino di una pistola Beretta cal. 22. E' certamente possibile, ma con questo viene a cadere ogni movente economico del delitto, poiché il denaro erogato dall'assicurazione non sarebbe stato speso dalla donna, bensì usato per comprare l'arma che doveva ucciderla.

domenica 20 aprile 2014

21 agosto 1968


Il 1968

 Alla fine, la storia del delitto di Signa si gioca tra due somme improbabilità.

La prima: che un assassino seriale al suo esordio, del tutto estraneo, abbia risparmiato il bambino, conducendolo poi, non si comprende per quale motivo ed a grave rischio di essere colto sul fatto, fino alla casa di De Felice; a questo si dovrebbe accompagnare che il Mele abbia saputo tutto quello che sa sul delitto dal bambino stesso e dagli investigatori, che la sua malattia proprio quel giorno sia stata reale, che il bambino abbia protetto l'ignoto assassino non parlandone mai, che si sia inventato l'episodio dello zio Piero e altro che forse ora mi sfugge…

La seconda: che la pistola (e con grande probabilità anche i proiettili) usata da uno o più del gruppo dei sardi sia poi transitata in altre mani e finita non ad un criminale comune, ma ad un serial killer per libidine che per incredibile coincidenza riproduce inconsapevolmente negli anni le circostanze del primo duplice omicidio: assalti a coppie appartate in auto nella campagna toscana in notti senza luna.

La prima ipotesi regge meglio se si ammette che Natalino abbia potuto arrivare da solo alla casina bianca con la luce in facciata;

La seconda regge meglio pensando non ad un passaggio di mano, ma allo stesso assassino dal 1968 al 1985, in grado di farsi beffe dei complici e della legge. Un nome possibile c'è. Per conoscerlo, si può leggere, previa iscrizione e diritto di accesso alla sezione privata del forum "Il Mostro di Firenze" , il "documento di studio" dell'utente HaZet "La pista sarda 2.0"; o, preferendo leggere un libro tradizionale, cercando l'ottimo "Il Mostro di Firenze" dei giornalisti Cecioni-Monastra.

Personalmente, non posso che essere scettico su entrambe le ipotesi. C'è da rompercisi la testa…

domenica 13 aprile 2014

Magdalen Nabb e il Mostro di Firenze (7)

Concludo citando quanto già scritto nel mio libro

Che lei stessa ci credesse o no, l’ipotesi “Amelio/Carlo” nella versione originale di Magdalen Nabb, esposta nel romanzo The Monster of Florence come risultato, nella finzione, dello studio degli atti di indagine da parte di Guarnaccia e nella realtà della lettura del materiale messo a disposizione della Nabb dai carabinieri, poggia su quattro pilastri e due corollari.

I pilastri possono essere riassunti nel modo seguente:

1. Giovane età dell’assassino al momento del primo delitto seriale, nell’ipotesi il 1974 (Amelio aveva allora 15 anni), in accordo con il profilo FBI;

2. Piccoli precedenti penali per furto e incendio doloso, sempre per concordare con il profilo suddetto;

3. Possibilità di accesso all’arma usata nel 1968; qui il riferimento è alla già citata denuncia di violazione di domicilio e furto di niente presentata nel 1974 da Silvano Vargius, che la Nabb (e solo lei) sosteneva di avere;

4. Testimonianza di due ragazzi riguardo ad un Alfa GT rossa guidata da un uomo apparentemente sconvolto che si allontanava a grande velocità dal luogo del delitto di Calenzano; dalla descrizione fu tratto un ben noto identikit, diffuso solo successivamente. “Carlo/Amelio” avrebbe posseduto un’Alfa rossa, secondo quanto, nel romanzo, dichiara al maresciallo Guarnaccia, la zia di Amelio (sorella di Margherita, la prima moglie di Silvano, che sarebbe stata uccisa in Sardegna nel 1960 facendo passare il suo assassinio per un suicidio col gas), ma probabilmente anche sulla base di indagini dei Carabinieri di cui è cenno nei giornali dell’epoca.

I primi due sono solo elementi di compatibilità con il profilo steso dal FBI.
Il terzo è rimasto proprietà della Nabb, che non ha ritenuto di diffondere pubblicamente il documento in suo eventuale possesso.
 Il quarto pilastro, in realtà, è molto traballante, in quanto, anche volendo ammettere il possesso di un’auto simile, l’identikit disegnato nel 1981, che ritrae un uomo di età tra i 40 e i 50 anni, non assomiglia affatto all’immagine del giovane “Amelio” quale fu pubblicata sui giornali all’epoca del processo di Cagliari del 1988.
I corollari consistono nell’esposizione di “Amelio” bambino alla vista di atti di perversione sessuale da parte del padre ed all’odio nutrito nei confronti di questi in quanto ritenuto responsabile della morte della madre Margherita. Anche qui si tratta di elementi troppo generici per assurgere ad indizi degni di nota.

(fine)

sabato 12 aprile 2014

Magdalen Nabb e il Mostro di Firenze (6)


Sono il primo ad ammettere che il disvelamento finale del colpevole nel romanzo è un po' un anticlimax e molto deludente per il lettore. In questo dialogo tra il maresciallo Guarnaccia e la sorella di Margherita (=Barbarina), avente per oggetto l'assassino di Signa e il figlio, è nascosto l'indizio principale.

"Ha distrutto altre vite oltre quelle di Margherita e la mia. (…) Pensi a suo figlio. Quando il ragazzo scappò da lui e venne al nord da me, lo considerai un segno del cielo. Pensai che dargli una casa, visto che neppure mia madre lo voleva, era la mia opportunità di farmi perdonare per aver abbandonato la mia povera sorella quella notte. Il povero ragazzino si attaccò a Flavio (= Francesco V.) che doveva avere sedici anni allora e che, comunque, non era migliore del fratello. Poi, quando lui si risposò, Flavio riportò il ragazzo a Firenze. Si può immaginare che vita… le cose che mi ha raccontato."
"Sarà stato difficile, con una matrigna e così via."
"Matrigna? Era felice di avere qualsiasi persona che assomigliasse a una madre, ma non durò. Lui la costrinse ad andare via con la sua violenza e il ragazzo scappò e venne da me. Provò prima a rifugiarsi da Flavio Vargius, ma non era al riparo dal padre lì. Beh, mia madre disse che me ne sarei pentita e in effetti fu così."
"Non rimase?"
Oh sì, rimase; per lo meno ufficialmente rimase con me fino a 21 anni. Ma gran parte del tempo era in prigione. Mi resi conto già da prima che c'era qualcosa che non andava, quando venne a casa con un'auto sportiva rossa, mentre era disoccupato. Non c'era mai stato niente del genere nella nostra famiglia e io non ero in grado di fronteggiarlo. Quando la polizia gli diede un foglio di via fu un sollievo, lo confesso. Si può immaginare le parole di mia madre a questo punto: <<Non dire che non ti avevo avvertito, è  figlio di suo padre quanto di Margherita.>>"

L'Alfa GT rossa vista a Calenzano è quindi l'unico elemento (concreto?) che collega Amelio Vargius (=Antonio V.) ai delitti.

venerdì 11 aprile 2014

Magdalen Nabb e il Mostro di Firenze (5)



Ed ecco l'opinione della Nabb su dottori, ginecologi, mandanti gaudenti e simili; sempre nel racconto del poliziotto al maresciallo Guarnaccia.

"Giravano voci – e ovviamente i giornali le hanno amplificate – che il vero Mostro non sarebbe mai stato scoperto perché era qualche pezzo grosso di Firenze Te ne ricordi?"

Il maresciallo ci pensò un po': "Quella volta che dissero che era un famoso chirurgo e così via?"

"Esatto. Due voci diverse confuse in una. Venivano da fonti separate, una importante, l'altra no. La storia del chirurgo uscì fuori da un rapporto autoptico che diceva che le escissioni erano così precise, ecc. – ma anche un macellaio è così preciso nel disossare un pollo - sono tutte sciocchezze, a parer mio. Ho visto i corpi e ti dico che qualunque sardo che abbia mai scuoiato un agnello morto… Capisci cosa intendo?" (…) Sia come sia, l'altra storia, il VIP fiorentino, è importante, attento a non bruciarti. (…) Quella voce – non so come venne diffusa – fu distorta. All'epoca stavamo verificando il giro dei guardoni e devo dire che fummo tutti scioccati da quello che scoprimmo. Intanto, perché non avevamo a che fare con un hobby, ma con un giro di affari. Il controllo della campagna intorno a Firenze era suddiviso tra varie bande. Bisognava chiedere il permesso di guardare e pagarlo. In più, c'erano nastri audio e video di coppie inconsapevoli. Ora, in ogni affare ci sono dei clienti. Mi segui? Ecco come il tuo VIP di Firenze entrò in questa storia e, come puoi immaginare, l'informazione fu tenuta segreta. Qualcosa venne fuori, però, come sempre succede, e così cominciò a girare la voce che il Mostro era qualche pezzo grosso il cui nome non sarebbe mai stato rivelato, specialmente quando Sassetti (=Enzo S.) fu arrestato e non parlò. L'auto a Scandicci era sotto il suo controllo e deve aver accompagnato là un cliente quella notte. Sono sciocchezze , comunque, meglio che te ne tieni alla larga. Diverresti sgradito a gente molto potente, tutti massoni, capisci cosa voglio dire? E non ne vale la pena. Silvano era un singolo e non aveva nulla a che fare con quelle bande."


Qualche commento?

giovedì 10 aprile 2014

Magdalen Nabb e il Mostro di Firenze (4)



Ho l'impressione che in pochi abbiano letto il romanzo The Monster of Florence, della Nabb. Magari ve ne traduco qui qualche passaggio.

 Qui il maresciallo Guarnaccia sta discutendo con un collega della polizia che ritiene che il Mostro sia Silvano Vargius (= Salvatore V.) e ritorna indietro nel tempo al presunto suicidio della giovane moglie in Sardegna.

"Quello che fece precipitare le cose fu che lei stava per lasciarlo, anche se non per un altro uomo. Non deve averne potuto più della vita che conduceva, affamata e costantemente picchiata da quel mostro di marito.. Si era decisa ed aveva ottenuto un impiego come inserviente in un orfanotrofio, dove avrebbe potuto portare con sé il bambino. Aveva già comprato il biglietto della corriera; lo avrebbe lasciato il giorno dopo. Naturalmente ora non c'è nessuno che può confermarcelo, ma abbiamo tutte le ragioni per pensare che lui la volesse coinvolgere a forza nelle sue acrobazie sessuali con il fratello e quando lei ne volle uscire, lui la fece fuori. Abbiamo la stessa situazione nel 68, quando Belinda Muscas (= Barbara L.) volle uscire dal triangolo Belinda – Sergio (= Stefano) – Silvano e si ebbe la stessa punizione. Probabilmente se ne era pure vantato, quando preparava il lavoretto del 68. Dopotutto, fu proprio Sergio a dirci: "Aveva ucciso la moglie in Sardegna e anche lì il bambino era stato fatto salvo". Chi glielo avrebbe potuto dire, se non lo stesso Silvano? Poi nel 74 la sua nuova moglie cerca di lasciarlo e lui diventa di nuovo omicida. Nel 1980 lo lascia davvero e si scatena l'inferno. Capisci cosa intendo?"

Il maresciallo non poté fare a meno di pensare come mai, se non aveva avuto scrupoli a uccidere la prima moglie e Belinda perché avevano osato lasciarlo, (Silvano) non avrebbe fatto lo stesso alla seconda moglie, piuttosto che andarsene in giro a uccidere quattordici estranei con una pistola la cui traccia riportava a lui. (…).


In sostanza, sembra chiaro che la Nabb aveva avuto modo di leggere il "Rapporto Torrisi", ma non concordava sul movente.

mercoledì 9 aprile 2014

Magdalen Nabb e il Mostro di Firenze (3)

Segue la traduzione di un brano tratto da un'intervista a Magdalen Nabb, datata settembre 2004(Reperibile sul sito internet http://italian-mysteries.com/ ) :

D: Il romanzo The Moster of Florence è stato tradotto in italiano?
Nabb: No, non penso che verrà mai tradotto. Perché le polemiche continuano. Ho ancora dei problemi. Avevo avuto problemi con l’affare dei terroristi e ho ancora un sacco di problemi con questo.

D: L’investigazione che ha inserito nel romanzo è reale?
Nabb: Sì, è l’investigazione reale. Avevo a disposizione il documento del giudice istruttore. Quello che ho fatto è di mettere Guarnaccia nella posizione in cui mi ero trovata io quando avevo deciso di seguire il caso e mi era stato passato tutto il materiale (…) Tutti coloro che erano stati coinvolti nell’investigazione seppero di cosa mi stavo occupando. La voce si diffuse e cominciarono a chiamarmi da tutte le parti. Ricevevo materiale dalla Sardegna, da Roma, da ogni parte, perfino dal Sud America. Ma comunque ho cercato di scrivere un romanzo, non di entrare in una polemica su perché cose come queste succedono. Mi interessava il fatto che una volta che la storia viene scritta, niente può più cambiare. Così Guarnaccia fa quello che avevo fatto io, trova il materiale autentico e scopre la verità. Ma non cambia niente, perché la Storia è già stata scritta.

D: Quindi pur essendo una scrittrice è diventata depositaria di informazioni delicate?
Nabb: Era inevitabile. Le mie ricerche risalirono fino al 1960 e il caso è aperto ancora oggi. Nessun poliziotto o inquirente rimane nello stesso posto per più di tre anni e molti giudici istruttori e PM sono stati coinvolti attraverso gli anni. Quando la prima indagine fu chiusa a favore del rinvio a giudizio di Pacciani, ci fu un taglio netto, persino il responsabile della medicina legale fu sostituito. Dopo di ciò nessuno ha potuto avere tutte le informazioni.
Avevo un problema con le informazioni che ottenevo. Io volevo scrivere un’opera di narrativa, ma, allo stesso tempo, una persona era accusata di essere un serial killer ed io avevo delle informazioni che avrebbero potuto essere usate in sua difesa. Le portai ai suoi avvocati. Purtroppo, mi fecero presente che sapevano molto poco sul caso, poiché risaliva troppo indietro e che non potevano sperare di studiarlo nel poco tempo disponibile. Diedi loro quello che potevo e decisi di affidarmi alla stampa. Nuovamente, poiché volevo scrivere una fiction e non entrare in polemica, diedi le informazioni a un giornalista che aveva seguito il caso dall’inizio e questi pubblicò una serie di articoli giornalieri durante il processo di appello. Questo provocava qualche agitazione ogni mattina nell’aula, ma se è stato utile o no non potrò mai saperlo, perché il Procuratore Generale era un tipo onesto e sensibile che aveva capito come stavano le cose. Invece di fare una requisitoria alla fine del processo per chiedere una condanna, disse che il caso era pieno di buchi e che Pacciani doveva essere liberato, il che avvenne quello stesso pomeriggio.
Purtroppo ebbi poi altri problemi con il giornalista che cercava di vendere dovunque possibile le mie ricerche. Quando cercò di venderle alla RAI, non le avrebbero accettate senza vedere delle prove in forma di documenti originali. Il giornalista dovette ammettere che il materiale era mio, così vennero a chiederlo a me. Ma rifiutai. Avrebbe potuto portare ad altre accuse senza fondamento ed era l’ultima cosa che avrei voluto (NdA: e con questa frase conclusiva la stessa Nabb sembra voler dire di non credere poi molto di aver raggiunto la verità).


 

martedì 8 aprile 2014

Magdalen Nabb e il Mostro di Firenze (2)




L’ipotesi della Nabb, è esposta quasi con delicatezza, in modo velato, ma comunque riconoscibile; la soluzione è in realtà solo accennata e la conclusione lasciata al lettore, i nomi dei protagonisti sono tutti modificati, ma i personaggi sono facilmente identificabili da chi conosca la vicenda reale. La conclusione delle contro-indagini ufficiose condotte dal maresciallo Guarnaccia è che Silvano Vargius [Nota: Ad evitare equivoci basati su facili assonanze, preciso che mantengo qui i nomi di fantasia usati dall’autrice.], ex amante di Belinda Muscas [Nota: nella finzione, il cognome di famiglia del marito], sia l’autore del delitto del 1968, in questo seguendo i sospetti esplicitati nell’ultima parte della “sentenza Rotella”, ma che i successivi duplici omicidi siano opera del figlio maggiore di questi, commessi con la pistola sottratta al padre nel 1974.

Nella stessa intervista citata in precedenza, la Nabb racconta di aver offerto del materiale da lei raccolto agli avvocati di Pacciani, che le dissero di aver già troppo da studiare nel tempo disponibile [Nota: il particolare è attendibile; nel corso del processo Pacciani l'avvocato Bevacqua lamentò la scarsità del tempo a sua disposizione per studiare l'enorme mole di atti; anche se poi, pur con scarso successo, avrebbe cercato di suggerire una rivisitazione della "pista sarda", in ciò coadiuvato dal collega di parte civile Santoni Franchetti]. La Nabb avrebbe poi cercato contatti tra i giornalisti, fornendo informazioni a Mario Spezi [Nota: Nell’intervista non viene fatto il nome, ma la persona è chiaramente riconoscibile dal contesto e dall’accenno all’accusa (avanzata nel corso dell’inchiesta perugina condotta dal sostituto procuratore Giuliano Mignini) di essere stato lui stesso coinvolto nei delitti.] per i suoi articoli, pubblicati su La Nazione nel corso del processo d'appello Pacciani; informazioni che poi Spezi avrebbe tentato di “vendere” ad altri giornali o testate televisive (tra cui la RAI), senza successo, in quanto non in possesso dei documenti originali, ovviamente detenuti dalla Nabb, che non volle cederli.

 Mario Spezi, nel suo “Dolci colline di sangue” (ed. Sonzogno 2006) scritto a quattro mani con l’americano Douglas Preston riconosce lealmente il debito che ha verso la scrittrice britannica nella formulazione dell’ipotesi “Carlo” [Nota: Il nome di fantasia che Spezi, nell’edizione italiana del romanzo, attribuisce al personaggio che la Nabb chiama Amelio Vargius.] mascherandone solo il nome (“Ethel” anziché Magdalen) e la nazionalità (belga anziché inglese). Salvo errori, l'episodio della cena in cui viene per la prima volta formulata l'ipotesi non è invece presente nell'edizione americana del testo (The Monster of Florence).

lunedì 7 aprile 2014

Magdalen Nabb e il Mostro di Firenze


Magdalen Nabb è una scrittrice inglese, autrice di libri per ragazzi e di una serie di romanzi polizieschi, ambientati a Firenze, il cui protagonista principale è il maresciallo dei carabinieri Salvatore Guarnaccia. La Nabb si trasferì in Toscana nel 1975, dedicandosi in un primo momento alla ceramica, attività che aveva già esercitato nella natia Inghilterra. Nel 1981 scrisse il suo primo romanzo poliziesco (Death of an Englishman), il primo di una serie di quattordici incentrati intorno alla figura del Maresciallo Guarnaccia ed all’attività investigativa dei Carabinieri, serie interrotta dalla prematura morte dell’autrice nell’agosto 2007.

Nel corso del tempo, per documentare meglio i suoi romanzi, sviluppò rapporti con ufficiali dei carabinieri, che le permisero di acquisire uno sguardo dal di dentro sull’organizzazione dei reparti dell’Arma e della loro attività in campo investigativo. Il suo dodicesimo libro della serie (Some bitter taste) reca un esplicito ringraziamento “al Generale Nicolino D’Angelo, per il suo prezioso, consueto aiuto per quanto riguarda l’Arma dei Carabinieri”; D’Angelo è anche il modello del personaggio del Capitano Maestrangelo, nei romanzi il superiore del Maresciallo Guarnaccia.

Ovviamente interessata dal caso criminale del “Mostro di Firenze”, seguì anche il processo di appello a Pacciani come reporter del Sunday Times. Grazie ai contatti nell’ambiente del Comando Carabinieri di Borgo Ognissanti ebbe accesso alla “sentenza Rotella” e condusse indagini in proprio, che traspose in un romanzo della serie di Guarnaccia, “The monster of Florence”, mai tradotto in italiano. In un’intervista rilasciata nel 2004 e pubblicata su un sito web, Magdalen Nabb ricostruisce la gestazione del romanzo, lasciando intendere che furono proprio i carabinieri che si erano occupati del caso sotto la direzione del giudice Rotella, delusi dall’abbandono definitivo della “pista sarda” e delle indagini svolte dalla S.A.M. sotto l’impulso della Procura, a spingerla a scrivere  una sua versione degli avvenimenti, filtrati attraverso una sorta di contro-inchiesta personale condotta da Guarnaccia e un gruppo di colleghi, nell’imminenza del processo Pacciani (sempre anonimamente definito come “The Suspect”).

Come c’era da aspettarsi, nel romanzo, pubblicato nel 1996, presumibilmente scritto nell’intervallo tra i due processi Pacciani, Magdalen Nabb critica l’inchiesta su Pietro Pacciani e sposa la tesi della “pista sarda”, seguendo fedelmente il tracciato della sentenza Rotella, ma aggiungendovi qualche nuovo particolare e cercando di contemperare le scarse evidenze con il profilo criminale dell’autore dei delitti delineato dal Forensic Behavioral Science Investigative Support Unit di Quantico (FBI) nel 1989.
(continua)

giovedì 3 aprile 2014

I pedalini di Natalino (2)

Cosa ci dice la constatazione che i calzini di Natalino erano impolverati e strappati? In verità, non molto. Strappati potevano esserlo già da prima della sua avventurosa quanto misteriosa uscita dalla Giulietta del Lo Bianco; quanto alla polvere, se fosse vero quanto il bambino narrò al Maresciallo Ferrero, ossia di aver compiuto da solo l'ultimo tratto di strada sterrata, dal "ponticino" alla casa bianca con il lampione in facciata, che Natalino abbia i calzini impolverati sarebbe naturale. In mancanza di altro, sembra opportuno ritenere la convinzione che si era fatta il maresciallo in corso di sopralluogo, ossia che il piccolo non avesse potuto fare quel percorso da solo, di notte e a piedi scalzi; non si spiegherebbe altrimenti la sua insistenza nel farsi fornire una versione alternativa.

I calzini impolverati sembrano dunque essere un dato di fatto che non risolve la questione dell'accompagnamento di Natalino. Anche difficilmente valutabile è il suo stato d'animo, poiché un teste ritiene di definirlo "spaventato", uno "spaurito e con gli occhi rossi", un terzo, al contrario, "non particolarmente impressionato". Sembra però chiaro che Natalino non vuole avere a che fare con l'autorità, poiché, racconta il De Felice, "mia moglie ci ha riferito che quando siamo usciti il bambino le domandò se per caso si fosse andati a chiamare i CC. e mia moglie lo rassicurò dicendo di no (sembra questa una preoccupazione un po' strana). Quando tornammo ed era con noi il carabiniere, il bambino si mise a piangere e non volle più parlare." Come sappiamo, però, Natalino fu poi rassicurato con un biscotto  e fu lui a guidare il carabiniere Giacomini nelle vicinanze del cimitero, dove era "parcata" l'auto con i due cadaveri a bordo. Può essere che in casa Mele i carabinieri funzionassero come "babau" o "uomo nero" – ricordo che la mia figlia più piccola si metteva a piangere disperata ogni volta che vedeva una suora, ma aveva all'epoca 3-4 anni; ma può anche darsi che qualcuno (l'assassino?) abbia minacciato il bambino (e anche il padre, se presente?) di non avvertire i carabinieri…

mercoledì 2 aprile 2014

I pedalini di Natalino (1)

Natalino arriva da De Felice stanco, ma non ferito e questo è ragionevolmente certo, tanto che nessuno riferisce di averlo disinfettato, incerottato, curato, anzi viene al più presto coinvolto nella ricerca dell’auto. Sullo stato dei calzini si è detto tutto e il contrario di tutto. Secondo il giudice Rotella, che studiò in maniera approfondita gli atti di polizia giudiziaria risalenti al 1968, i calzini non erano strappati – potevano ben essere impolverati, poiché, anche nella versione dell’accompagnamento, cui Rotella sembra prestare fede, Natalino avrebbe compiuto da solo il breve tratto di strada sterrata dall’ultimo ponticello alla casa. Per l’avvocato Filastò, i calzini “impolverati e con la pianta logora” sono al contrario la prova (una delle prove, insieme ad altre che vedremo in seguito) che Natalino ha fatto tutto da solo. Il colonnello dei carabinieri Olinto Dell’Amico, interrogato a proposito nell’udienza del 22 aprile 1994 del processo Pacciani, non ricorderà lo stato dei calzini, che pure avrebbe dovuto essere, all’epoca, un particolare importante; nel corso della stessa audizione, l’avvocato Bevacqua, difensore di Pietro Pacciani,  dirà che Risulta agli atti che i calzini erano addirittura bianchi, puliti”, ricevendone dal colonnello una non molto convinta conferma. Sembra che nel processo del 1970 altri testimoni abbiano parlato di calzini “sporchi, logori, strappati”.

Vediamo meglio. Il carabiniere Giacomini, il primo appartenente alle forze di polizia ad entrare in contatto con Natalino, riferisce che il bambino "era scalzo, con i calzini strappati". Il padrone di casa Marcello M. dice che "il bambino aveva la maglietta un po' sporca e calzini, senza scarpe, rotti e polverosi". Secondo la moglie del De Felice, Maria S. i calzini erano "strappati e impolverati". Già non ci rendiamo conto di come sia nata la leggenda, fatta propria in udienza dall'avv. Bevacqua e non smentita dal teste Dell'Amico, dei "calzini addirittura bianchi, puliti".

 

(segue)