mercoledì 20 aprile 2016

Riconsiderare Signa



Chi, come me, pensa che la “pista sarda” non sia del tutto infondata, quanto meno relativamente al primo delitto, deve comunque porsi alcune domande anche alla luce di fatti successivi emersi nel corso delle indagini e dei processi sul caso “Mostro di Firenze”. Domande non tanto sulla sua nascita – sia subito chiaro, non credo affatto alla possibilità di un depistaggio – quanto sulle basi della sua reale consistenza.

Come si sa, prove materiali a carico del l’imputato e poi condannato marito della donna, Stefano Mele, non vennero trovate; la sentenza di condanna si basò su una stentata confessione con annessa chiamata di correità e sulla conferma del figlio della vittima, di 6 anni all’epoca del delitto, otto al momento del processo. Un processo quindi su base esclusivamente testimoniale, nel quale i testi chiave sono un ipodotato e un bambino. Pensando al processo ai cosiddetti Compagni di Merende già questo dovrebbe far scattare un robusto campanello d’allarme.

In nuce, il problema è ben chiaro: la coppia Locci – Lo Bianco venne uccisa casualmente da un serial killer sconosciuto ed estraneo alle vittime o da qualcuno –si intende, uno o più soggetti – che aveva interesse a eliminare la donna, l’uomo o entrambi in quanto coppia clandestina e fedifraga?

Nel 1968, lo stesso concetto generale di serial killer era probabilmente di là da venire; tanto meno, trattandosi di primo e allora unico delitto, quello di mostro di Firenze. L’interesse degli inquirenti si concentrò subito sui candidati più naturali: il marito tradito e l’amante geloso (Francesco Vinci). E’ un fatto innegabile che nella maggioranza dei casi quando le donne vengono uccise ciò avviene per mano di un uomo a loro vicino, che sia marito, compagno, fidanzato, amante o anche solo innamorato respinto; la componente di gelosia avrebbe portato a sopprimere anche il rivale, ossia il soggetto che quella sera aveva avuto la sfortuna di accompagnarsi con la vittima designata. Questo pensiero è peraltro sotteso a una dichiarazione di Giovanni, fratello del Mele, riferito dalla vedova Lo Bianco: << prima o dopo a qualcuno che era con lei sarebbe dovuto capitare. Mi dispiace che sia toccato a suo marito>> (Rotella). Vi è, del resto, più di un’evidenza che generalmente si ritenesse Francesco come possibile assassino, e questo anche da parte dei propri fratelli; tuttavia, essere sospettati non significa essere automaticamente colpevoli.

Dopo un primo diniego, Stefano confessò abbastanza velocemente, cercando comunque di addossare la maggiore responsabilità a un complice, prima Salvatore Vinci, poi il di lui fratello Francesco, infine a un altro preteso amante della moglie, Carmelo Cutrona. Come si sia venuti alla confessione del Mele non è ben chiaro; che vi siano state pressioni fisiche si desume da un appunto del suo avvocato Dante Ricci (Filastò) e da tardive dichiarazioni alla stampa dello stesso Mele; l’evenienza, come ben sappiamo, non è improbabile. Nel frattempo, Natalino continuava a sostenere di aver camminato da solo lungo la stradina di campagna che portava alla casa del De Felice; e solo pressato, più o meno bonariamente, dal maresciallo Ferrero, ammise di esservi stato accompagnato dal padre, il quale, in quel momento aveva già confessato il delitto. Quindi, il maresciallo già sa per certo, o quanto meno crede di sapere, che quella notte Stefano Mele era sul posto; e Natalino gli dice esattamente quello che Ferrero desidera sentirsi dire ossia una conferma della veridicità della confessione; il che naturalmente non esclude che quanto riferisce Natalino in quel momento sia la pura verità. E’ però interessante notare che nella prima confessione del Mele l’accompagnamento di Natalino non trovi alcun posto: << A questo punto il figlio si sveglia e lo chiama: "babbo". Non dice altro o lui non lo sente, perché scappa>> (Rotella). Chi sia a scappare, se il padre, il figlio o entrambi, non risulta chiaro; in questa versione sembra sia stato Stefano “colto da un profondo senso di vergogna e colpa”. Sta di fatto che questo racconto è del tutto diverso da quella di Natalino e non verrà mai confermato dal figlio. Sembra proprio che il Mele in questo momento non abbia idea di cosa abbia fatto il bambino dopo l’esecuzione del delitto; né i Carabinieri dopo aver raccolto la versione di Natalino hanno l’accortezza di fargli rifare il presunto percorso notturno.

Riassumendo, la confessione e chiamata in correità di Stefano, l’ammissione della presenza del padre da parte di Natalino non avvengono spontaneamente, ma sono indotte da pressioni di diverso genere su due soggetti indubbiamente fragili; questo è del tutto normale in tali casi e non ci deve indurre a ritenerle per ciò stesso false. Prima di proseguire il ragionamento, facciamo ora un veloce parallelo con la situazione delle indagini sui “compagni di merende”: anche qui incontriamo un soggetto oligofrenico e uno comunque ipodotato che, interrogati, cedono e confessano, il primo un ruolo di spettatore, il secondo addirittura una partecipazione attiva. I tempi sono cambiati e non vi è problema di confessioni estorte con la violenza; ma vi è un evidente dislivello tra chi, determinato, esperto e agguerrito, interroga; e chi, intellettualmente debole, suggestionabile e senza supporto legale in quanto semplice persona informata sui fatti, rende testimonianza.

Detto questo, salta agli occhi una evidente differenza tra Stefano Mele e Giancarlo Lotti. Mentre il Lotti non aggiunge nulla di nuovo al patrimonio di conoscenze degli inquirenti, se non particolari risibili o comunque incontrollabili, il Mele dimostra di conoscere qualcosa della scena del crimine; e come potrebbe se fosse vero che, come dirà anni più tardi al giudice istruttore, vi venne portato per la prima volta dai CC due giorni dopo il delitto? Questa (limitata) conoscenza dei fatti si può spiegare in qualche modo supponendo che il Mele fosse estraneo al delitto? In verità sì. Il giudice Rotella nella sua sentenza suppone che, nella notte tra il 22 e il 23 agosto, il padre abbia ammaestrato il figlio; ma poiché la presenza in loco di Natalino è certa e incerta quella di Stefano, sarebbe più naturale pensare che sia stato il bambino a informare l’adulto di quel poco che poteva aver visto: la posizione dei corpi, la luce posteriore lampeggiante nel buio. Un’unica cosa Natalino non può sapere che invece Stefano conosce: il numero dei colpi sparati. Bisogna supporre (così almeno fa Ognibene nella sua sentenza contro Pietro Pacciani) che la cosa sia sfuggita agli inquirenti stessi, posto che essi già la conoscessero; e per quanto l’indagine fosse fin dall’inizio sgangherata e frettolosa, e subito inquinata da una confessione palesemente falsa, si tratterebbe di un errore investigativo davvero difficile da mandar giù. Assai acutamente, Giovanni Mele evidenzierà ,nel suo enigmatico biglietto che nel 1984 lo porterà in carcere, che la prova provata del coinvolgimento del fratello nel delitto consisteva proprio nella sua conoscenza del numero dei colpi sparati. Forse, anche lui non sapeva nulla di preciso e da quel dettaglio aveva tratto il convincimento della partecipazione del fratello al delitto.

Sia come sia, per il resto l’atteggiamento di Stefano Mele sembra proprio quello di chi nulla sa e affastella nomi a casaccio, pescando dal mucchio i più noti amanti della moglie; più avanti, allargherà il tiro ai suoi stessi congiunti. Un passaggio delle sue dichiarazioni appare rivelatore: informato che l’esito del guanto di paraffina scagiona Francesco Vinci ed è positivo per Cutrona, Mele si limita a dire: << Non c’è bisogno del confronto con Francesco. Se gli accertamenti sono come dite vuol dire che è stato il Cutrona>>. E il 16 gennaio 1984: << Insomma cercavo di cavarmela e perciò facevo nomi non veri. Non era vero neanche il nome di Francesco Vinci. Adesso non ricordo chi fosse con me. Prendo atto che la cosa è poco credibile>>. I casi sono due: o mente perché non sa chi sia l’assassino o sta proteggendo, oltre a se stesso, qualcun altro, che non può essere che l’esecutore materiale del delitto.

Le esternazioni di Natalino, anche se non ondivaghe come quelle del padre, sono ugualmente inaffidabili; soprattutto, non può esservi certezza che, fin dal suo primo apparire alla soglia di casa De Felice, non siano state inquinate da un eventuale accompagnatore che intendeva, naturalmente, nascondere la sua presenza. La testimonianza resa al processo del 1970 è probabilmente suggerita dai familiari e protettiva nei confronti dello zio Pietro; quella del 1994 apertamente reticente e senza dubbio inesatta nei particolari: Natale dice di essere uscito da un finestrino che venne trovato chiuso e di essersi diretto verso una lucina che dal luogo ove era parcheggiata l’auto non si può in alcun modo vedere. Rimane il macigno della sua passeggiata notturna in solitario; perché sembra veramente impossibile che un killer spietato ed estraneo si trasformi dopo il delitto in provvidenziale accompagnatore che mette a rischio la sua incolumità per portare in salvo il figlio della vittima. Ho abbondantemente parlato, nel libro e poi in questo stesso blog, dell’improbabilità, psicologica prima che fisica, di un cammino notturno fatto dal bambino; e ciò sarebbe comprovato dall’insistenza di Ferrero, che con tutta evidenza ritenne impossibile che Natalino avesse compiuto quel tragitto da solo. Tuttavia, come già detto, il sopralluogo avviene in un momento in cui Stefano ha già confessato; e in fin dei conti non vi sono impossibilità fisiche che ci permettano di escludere con assoluta certezza l’ipotesi.

L’ultimo elemento forte che trovo contro la decostruzione della “pista sarda” è la predizione della Locci sulla propria fine: è un fatto che la donna fu uccisa proprio nel modo che temeva; e per quanto sia impossibile sapere con certezza chi fosse il soggetto di cui aveva paura, tutto fa pensare che appartenesse al giro dei suoi frequentatori. Anche qui, è difficile immaginare che una donna manifesti il timore di essere uccisa in un determinato modo e poi, del tutto indipendentemente, si presenti un serial killer sconosciuto che senza saperlo metta in pratica l’eventuale disegno di altri. Difficile, ma non impossibile: le coincidenze esistono e non si possono eliminare dalla vita reale con il calcolo delle probabilità.

Sintetizzando al massimo: se Signa fosse il quarto o il quinto delitto della serie, chi mai dubiterebbe che sia opera del Mostro di Firenze? La sua posizione archetipica apre al dubbio. Considerato in sé, sembra proprio un classico delitto di gelosia/onore: da qui la nascita, pienamente legittima dal punto di vista investigativo, della pista sarda; perché chi avrebbe dovuto desiderare, per “onore” o gelosia, la morte di una donna, se non il marito, i familiari o gli amanti di lei? Tricomi e Rotella seguirono quella che era la strada maestra per risolvere il caso; apertasi all’improvviso dopo il 1982, terminò in un vicolo cieco. Una volta inserito il delitto in una serie di omicidi della stessa tipologia commessi con la medesima arma (e analogo munizionamento) il discorso cambia. Non vi sono elementi di fatto ineludibili che certifichino la pista sarda come l'unica possibile, nemmeno per Signa.

E’ difficile che Stefano Mele abbia casualmente indovinato il numero dei colpi; che Natalino abbia trovato il coraggio di avventurarsi nel buio della notte verso una destinazione a lui ignota; che la Locci abbia potuto prevedere le modalità della propria morte. E’ di conseguenza improbabile che la pista sarda sia solo un’arbitraria e testarda costruzione mentale degli inquirenti. La pista sarda tiene.

Ma è anche difficile che l’arma sia passata di mano continuando a commettere gli stessi delitti; che i due Mele, pur conoscendo la verità, non l’abbiano mai detta; che un eventuale amante geloso o spasimante deluso della Locci, rimasto sconosciuto alle indagini, si trasformi, anni dopo, in un serial killer per libidine. La pista sarda non tiene.

E’ impossibile che l’arma di Signa non sia la stessa; è impossibile che Francesco, Giovanni e Pietro siano il Mostro di Firenze, giacché erano in galera; è difficile che Salvatore continui a uccidere pur essendo sotto sorveglianza e cosciente di esserlo. Difficile, difficilissimo; ma non impossibile. La pista sarda tiene?

Sulla pista sarda possiamo continuare a romperci la testa.