domenica 8 ottobre 2017

Quanti colpi a Signa? - 2



II

 

Prima di commentare quanto scritto nella I parte, facciamo un breve excursus su cose già dette, nel libro e in precedenti articoli di questo blog.
Perché dobbiamo avere fiducia nel Mele? Un personaggio che, nel giro di tre giorni, prima  dichiara di essere all’oscuro di tutto, poi accusa Salvatore Vinci, poi, informato che Salvatore ha un alibi, accusa Francesco, poi, informato che il guanto di paraffina è negativo su Francesco e positivo su Cutrona, accusa appunto Cutrona, dicendo, in sostanza “se non è stato l’uno, è stato l’altro?” E che a un certo punto ammetterà chiaramente di aver fatto i nomi perché erano gli amanti della moglie? Questa girandola di accuse e ritrattazioni denota forse una conoscenza diretta del fatto? O non piuttosto sospetti alimentati da desiderio di rivalsa? Un comportamento, evidentemente alimentato dalle pressioni degli inquirenti e favorito dalla sua conclamata oligofrenia, che continuerà per tutte le indagini degli anni Ottanta. Al confronto di Mele, i tanto vituperati (a ragione) testi Alfa e Beta sono precisi, coerenti e costanti. Ma torniamo al discorso principale.
 




La conoscenza esatta del numero di colpi sparati è stata, da sempre, il principale cavallo di battaglia della tesi accusatoria nei confronti di Stefano Mele prima (si leggano i documenti messi recentemente online da Antonio Segnini), di coloro, numerosissimi e molto accreditati, che lo pongono comunque sulla scena del crimine pur non credendo alla sua colpevolezza. In effetti, sarebbe una ben strana coincidenza se Mele, senza nulla sapere, azzeccasse esattamente il numero di colpi sparati, né poteva essere questo (a differenza di altri particolari: posizione dei corpi, freccia direzionale lampeggiante) un elemento di conoscenza trasmessogli da Natalino, che certo, se pur aveva sentito qualcosa, non poteva aver contato le esplosioni. Il brigadiere Matassino, nel suo rapporto, si premura di osservare che “(al momento della confessione) non si conosce ancora il risultato dell’autopsia, come il numero dei colpi sparati (otto)”. Non si riesce a capire bene quando vennero fatte le autopsie e perché vennero affidate a medici diversi (l’esame in aula è come al solito confuso); Graziuso, che fece l’autopsia del Lo Bianco, dice di averla fatta circa 36 ore dopo il decesso, “la mattina del giorno di agosto…” che con un po’ di fantasia possiamo ricostruire essere il giorno 23, verso mezzogiorno; non si sa invece quando venne effettuata l’autopsia sulla Locci, ma probabilmente in corso di mattinata, poco prima o poco dopo, poiché le foto dei corpi sul tavolo autoptico risalgono, come ci dicono Arcese e Jadevito, appunto al 23. 

 
Corriere della Sera 24 agosto 1968  (Nota: il giornalista o la sua fonte probabilmente confondono i due proiettili rinvenuti uno nell'abitacolo, uno nelle vesti della Locci, con colpi a vuoto)
Stefano Mele fa la sua prima confessione nel pomeriggio, segue (“all’imbrunire” secondo i giornali) il sopralluogo insieme ai CC, nel quale, a dire di Spremolla, non ci sarebbe accenno alcuno a complici, e alle 21.30 viene verbalizzato il particolare decisivo: Salvatore Vinci consegna la pistola al Mele avvertendolo: “Guarda che ci sono otto colpi”. Non è certo impossibile che, nella serata del 23, i carabinieri di Signa abbiano già avuto notizia informale dell’esito delle autopsie, anche se non vi era ancora un referto ufficiale. Come di solito, in mancanza di documenti, siamo costretti a congetturare. 


Catalogo Bolaffi del cacciatore e delle armi - Edizione 1965 (grazie ad Andrea Allemandi)


Ammettiamo che il Mele abbia colto un (involontario) suggerimento degli inquirenti, e si sia adeguato a un dato in realtà sbagliato, lo stesso dato cui si adeguerà Zuntini nella sua perizia balistica (data ignota; Rotella parla di una relazione peritale stesa “qualche mese più tardi”; ma allora da cosa trasse i suoi dati Matassino nel redigere il suo rapporto del 21 settembre 1968, che cita appunto l’intervento dello Zuntini? Quante cose si vorrebbero sapere in più…). Non sarebbe la prima né l’ultima volta che un teste debole di mente finisce per riferire quello che gli inquirenti vogliono sentirsi dire (si veda l’analisi del comportamento del “Teste Alfa” su questo blog). Rotella dice che, il giorno 23, i carabinieri “insistono a inquisirlo (fuori verbale e con l’ausilio di Mucciarini). […] Finalmente, Mele confessa di essere lui stesso l’assassino.” Quella nota tra parentesi : “fuori verbale e con l’ausilio di Mucciarini” è invero poco rassicurante. Nella stessa vena, per quanto il racconto fatto dal maresciallo Ferrero sembri assolutamente corretto e genuino, occorre aver presente che, quando Natalino infine ammise di essere stato portato dal padre, a cavalluccio, fino alle vicinanze di casa De Felice (24 agosto, pomeriggio), Stefano aveva già confessato (sera del 23, senza però dire nulla del figlio). La minaccia di rifare scalzo e al buio il percorso della notte in cui gli era stata uccisa la madre può essere sembrata intollerabile a un bambino chiaramente ancora scioccato dall’esperienza vissuta. Possiamo essere sicuri che egli non abbia istintivamente intuito dove il sottufficiale voleva andare a parare? Spiace dover sollevare continui dubbi sulla competenza (più che sulla correttezza) degli inquirenti dell’epoca, ma vi sono ormai troppe indicazioni di come, in questa intricata storia, il desiderio di far quadrare quello che non quadrava affatto abbia portato a un utilizzo disinvolto di indizi e testimonianze, soprattutto facendo mancare i dovuti approfondimenti. Cosa sarebbe costato, il giorno dopo, rifare lo stesso percorso con il padre, per accertarsi che le versioni coincidessero? Purtroppo, la confessione, per quanto definita dallo stesso Matassino “sconcertante”, blocca di fatto le indagini; al massimo si continua, fino al processo, a cercare il vero movente e l’eventuale complice, senza peraltro trovare né l’uno né l’altro. La situazione è analoga a quella che si verificherà molti anni dopo, con la pista dei “Compagni di merende”.

Alla luce di queste considerazioni e dei documenti emersi in recenti pubblicazioni, che sembrano indicare una sua probabile estraneità e ignoranza, possiamo togliere Stefano Mele dal luogo del delitto, atteso che, in definitiva, dimostra di non sapere niente di più che quello che gli può essere stato descritto o suggerito da altri? Semmai, volendo rimanere a tutti i costi in ottica “sardista”, si potrebbe eventualmente presumere che la malattia del Mele la mattina del 21 sia un vero alibi preordinato, volto cioè a scagionarlo con certezza, (mentre altri commettevano il delitto) con l'avvallo della testimonianza del figlio, che sarebbe dovuto rimanere a casa con lui. Ma Natalino, contro le intenzioni del padre, si infilò nell'auto del Lo Bianco e l'assassino/gli assassini si trovarono a dover gestire una situazione inaspettata; a quel punto, per tutti, Stefano diveniva il soggetto più facilmente sacrificabile. Quanto a Piero Mucciarini, la situazione è estremamente confusa. Secondo il volume “Al di là di ogni ragionevole dubbio”,  il maresciallo Ferrero, teste al processo del 1970, dichiarò quanto segue: “Svolte indagini su Piero Mucciarini, di professione panettiere, era emerso che la sera in cui Barbara Locci ed Antonio Lo Bianco erano stati uccisi, il Mucciarini non era al lavoro poiché aveva preso un giorno di permesso; lo stesso risultò altresì essere stato arrestato, molti anni addietro, per rapina. A seguito della confessione del Mele le indagini su Mucciarini erano state però abbandonate”. La versione di Rotella, che, ricordiamolo, fece arrestare Mucciarini per l’omicidio del 1968, è diversa: “Si è appurato, documentalmente, che egli risulta al lavoro, presso il forno Buti di Scandicci, nella zona di Casellina, quella notte. (…) Il Mucciarini che riposava in quel mese, per lo più la notte sul mercoledì, aveva, secondo, le sue ultime dichiarazioni scambiato il suo giorno di riposo con quello di un compagno (P.N.), che risultava, secondo le registrazioni, assente proprio la notte successiva (giovedì)”. Insomma, il primo inquirente (Ferrero) afferma che Mucciarini non era al lavoro, ma non investiga oltre; il giudice istruttore del 1984 afferma che era al lavoro (anche se “documentalmente”) e lo fa arrestare. Sembra logico che, se avesse saputo che quel giorno sarebbe stato commesso un delitto in cui poteva essere implicato, avrebbe sì cambiato il turno, ma per essere al lavoro, e non solo documentalmente, in modo da risultare palesemente estraneo. Ma si tratta naturalmente di illazioni che lasciano il tempo che trovano.

Concludendo, fare a meno di Stefano Mele come protagonista del delitto del 1968 significa la fine definitiva della "pista sarda"? Ovviamente no, se intendiamo l'espressione in senso lato, nel senso di un rapporto preesistente e non casuale con le vittime o almeno una delle vittime. Rimangono in piedi due importanti elementi che possono far presumere una conoscenza di qualche tipo tra l'assassino e la vittima femminile e forse la sua famiglia: l'improbabilità, più psicologica che fisica, della passeggiata notturna di Natalino; il timore della Locci di essere vittima di un agguato mentre era in macchina con un uomo, timore alla cui base doveva stare una concreta e recente minaccia.

La Stampa - 5 marzo 1989

Nota: I lettori del mio “Volume I” considerino questo articolo un’appendice al libro. Per fortuna, vecchi documenti continuano a uscire e il proposito di chiudere definitivamente il discorso su Signa e la pista sarda viene periodicamente disatteso. Come ho scritto altrove, nuove conoscenze necessitano nuove spiegazioni; riaggiustare le idee può essere faticoso e fastidioso, ma è questo il succo del metodo storico. Alla prossima.
(FINE)

sabato 7 ottobre 2017

Quanti colpi a Signa?



Quanti colpi a Signa




Questo articolo necessita di una premessa. Per mia attitudine mentale e in un’applicazione forse ingenua del principio di autorità tendo a fidarmi di chi ne sa o dovrebbe sapere di più e non metto il naso in cose nelle quali non ho competenza. In concreto, nel caso che è oggetto di studio, che è quello dei duplici omicidi attribuiti al Mostro di Firenze, ho sempre dato fiducia agli esiti delle perizie e consulenze tecniche, senza sottoporle a un vaglio critico di cui non sarei comunque stato capace.

Tuttavia, le emergenze dell’ultimo periodo mi fanno pensare che non tutto quanto scritto e detto dai periti sia da prendere per oro colato: il probabilissimo errore di Maurri nella datazione dell’ultimo duplice delitto; l’insufficiente e rinunciatario esame psicologico/psichiatrico del teste Fernando Pucci da parte dei consulenti del PM Fornari e Lagazzi, pur autorevolissimi nel loro campo; l’improbabile risultato della perizia balistica Zuntini sul 1974, nella quale per unica volta si rilevano più di nove colpi sparati dall’arma dell’assassino. Su questi risultati non si può concordare.

E su Signa? La perizia balistica su Signa, ad opera dello stesso Zuntini, non mi è disponibile, ma è indubbio che parli di otto colpi sparati e a segno, come risulta dalle altre fonti derivate (rapporto Matassino, perizia De Fazio, sentenza Rotella). Questa ricostruzione è condivisibile o possiamo avanzare dei dubbi?

Per cercare una risposta, considerata la mia nessuna competenza in materia di anatomia, mi sono avvalso della collaborazione dell’amico Prof. Claudio Ferri, Professore Ordinario di Medicina Interna presso l’Università dell’Aquila e anch’egli, per avventura, interessato al caso criminale del Mostro di Firenze. Il professore mi ha fornito un dettagliato scritto esplicativo, che utilizzerò ampiamente nel seguito, indicando debitamente le citazioni. Le fonti utilizzate sono, oltre ai già ricordati Matassino e De Fazio, l’escussione del prof. Biagio Montalto in occasione del processo di I grado a Pietro Pacciani (Montalto eseguì l’autopsia sul cadavere di Barbara Locci; la sua testimonianza integrale si può leggere qui) e la perizia balistica Arcese – Jadevito del 1983 (redatta su incarico del G.I. Rotella nel periodo intercorrente tra gli omicidi di Baccaiano e di Giogoli) per un breve passo che riporterò. La mancanza della perizia Zuntini 1968 è, ovviamente, gravissima; chi ce l’ha disponibile potrà, eventualmente rendendola pubblica, criticare l’articolo dimostrandone, documenti alla mano, gli eventuali errori e far così progredire l’analisi storica della vicenda.

I


Interessiamoci prima dei reperti; sappiamo che vennero rinvenuti cinque bossoli (tre all’esterno dell’auto, lungo la fiancata sinistra, e due all’interno) e sette proiettili (cinque ritenuti nei corpi delle vittime, come vedremo in dettaglio), due nell’abitacolo.  Da subito ci si pone un problema: come arrivò Zuntini ad ipotizzare otto colpi, in presenza di sette proiettili? La risposta è apparentemente semplice: le autopsie individuarono otto fori d’entrata sui cadaveri, quattro sull’uomo e quattro sulla donna. Possibile che l’ottavo proiettile, sparato nell’abitacolo dell’auto, si sia volatilizzato? Si noti che i vetri dell’auto sono intatti e i finestrini erano chiusi, quindi non vi è alcuna possibilità, come può essere avvenuto in altri delitti, che il proiettile si sia semplicemente perso nell’ambiente.

Vediamo più in dettaglio i risultati autoptici, cominciando dalla vittima maschile, che, come si ricorderà, viene rinvenuto disteso sul sedile del passeggero a schienale reclinato, apparentemente nell’atto di tirarsi su i pantaloni. Seguiamo qui De Fazio et al. (la testimonianza del perito autoptico Dott. Graziuso in sede di processo – 26 aprile 1994 – è incerta e di scarso interesse). “In complesso si descrivono 11 lesioni da arma a fuoco rapportabili a quattro colpi esplosi; tre di essi con proiettile ritenuto (tre proiettili in cavità toracica). Tre lesioni d'arma da fuoco (fori di ingresso) sulla faccia latero-anteriore del braccio sx., con corrispondenti fori di uscita sulla faccia anteromediale: essi delineano una traiettoria in continuità con altrettanti fori d'ingresso sulla parete laterale sx. del torace, che risulteranno inizi di tramite intracorporei che hanno attinto il polmone sx., lo stomaco e la milza, determinando emotorace ed emoperitoneo. Si tratta di un gruppo di lesioni con traumato-genesi e. dinamica unitaria, riferibili a tre colpi d'arma da fuoco esplosi in rapida successione (il decorso pressoché parallelo dei tramiti depone per uno scarso movimento della vittima tra l'uno e l'altro colpo). La traiettoria è teoricamente dall'alto verso il basso, da sx. verso dx. e in senso lievemente anteroposteriore”. In altre e più semplici parole, abbiamo tre colpi, sparati da sinistra, che penetrano il braccio, escono e rientrano sul lato sinistro del torace, attingendo polmone, stomaco e milza e causando la morte del Lo Bianco. Continua De Fazio: “Due lesioni, rispettivamente foro di entrata e foro di uscita sull'avambraccio sx. riferibili a medesimo proiettile perché uniti da unico tramite con traiettoria da sx. a dx. concordemente alle lesioni precedenti. Quindi un quarto colpo, avente la stessa direzionalità dei precedenti, penetra l’avambraccio e fuoriesce, senza, a differenza degli altri, colpire il tronco della vittima.   Questo è il primo dei proiettili non ritenuti che dobbiamo trovare.

Passiamo ora ai dati autoptici su Barbara Locci. Arcese- Jadevito nella loro perizia balistica comparativa non utilizzano né il risultato dell’autopsia né la perizia Zuntini (che fosse latitante già da allora?) ma dichiarano di aver osservato direttamente le fotografie scattate dalla polizia scientifica il 23 agosto 1968 presso l’istituto di medicina Legale di Careggi; e per quanto riguarda le ferite inferte alla Locci fanno questo utile compendio:

a)      Un foro nella regione sopramammellare destra;

b)      Un foro a metà della linea xifo-ombelicale;

c)       Un foro nella faccia posteriore dell’emitorace destro (regione scapolare);

d)      Due fori nella regione lombare sinistra;

e)      Un foro nella faccia posteriore della spalla sinistra.

Si intende che i fori c, d, d1, e sono, nella dinamica comunemente accettata, fori d’entrata (sul dorso) e i fori a e b fori d’uscita (sul davanti). Quindi ne concludiamo, a spanne, che la Locci fu colpita da quattro proiettili tra spalla sinistra e schiena, dei quali due ritenuti e due fuoriusciti. Abbiamo dunque altri due proiettili da ricercare, che si sommano a quello che ha penetrato, fuoriuscendo, l’avambraccio dell’uomo. Nell’auto dovremmo logicamente trovare tre distinti proiettili, eventualmente anche frammentati. Il problema è che ce ne sono soltanto due, uno finito sul pianale posteriore dell’auto, uno rimasto impigliato tra le vesti della donna, che verrà però rinvenuto, alla svestizione del cadavere, dalla parte della schiena (ma deve per forza di cose essere uno dei due che uscirono in zona toracica-addominale, altrimenti la dinamica diventerebbe troppo improbabile).


Per un esame più dettagliato lascio qui la parola al Prof. Ferri.

“Quattro colpi in entrata, tutti localizzati sul tronco, posteriormente, due in uscita, entrambi anteriormente. Nel dettaglio, dei due fori in uscita,

·         uno è riferibile ad un proiettile che ha devastato polmone, cuore e vasi ed è fuoriuscito in prossimità della mammella destra (il prof. Montalto, autore all’epoca dell’autopsia, precisa nella deposizione processuale del 22.4.1994: 6 cm dal margine inferiore della clavicola, 3 cm dalla medio-sternale. Pertanto, questo foro di uscita è localizzabile assai probabilmente non troppo distante dall’areola di destra, nella parte superiore della mammella);

·         uno è riferibile ad un proiettile che ha colpito prima il pancreas e poi l’ala del fegato (ed è fuoriuscito, dice il Professor Montalto, fra il tratto toracico ed il tratto addominale, quindi riferibile a quanto descritto come “a metà della  linea xifo-ombelicale”). 

   Come anticipato, tutti e quattro i fori d'entrata sono localizzati sul dorso della vittima femminile.

   Le traiettorie – che è possibile ricostruire in linea di massima, privi come siamo di reperti fotografici, grazie all’analisi dei tramiti tra foro di ingresso e foro di uscita oppure tra foro di ingresso e proiettile ritenuto – sono quindi tutte dirette dall’indietro in avanti. Particolare interessante, le stesse traiettorie descrivono sempre un andamento dal basso verso l'alto.  Al contrario dell’omogeneità precedente, le direzioni dei colpi vanno da sinistra a destra, mentre uno solo va da destra a sinistra.

   Il dettaglio è interessante, analizziamolo, premettendo che “ogni proiettile (è) riferito ad un'area cutanea che comprende il settore posteriore sinistro dell'emitorace, del torace diciamo, e il tratto immediatamente sottostante confinante con la regione lombare”. Pertanto, immaginiamo che, in uno spazio ben delimitato sono entrati tutti e quattro i proiettili: uno, però, ha una direzione diversa rispetto agli altri tre.

   Da ciò ne consegue che la serie di tre o questo singolo colpo sono/è entrati/o dopo che la vittima si è spostata o che a spostarsi è stata la pistola (cioè lo sparatore) o, comunque, che l’origine spaziale della serie di tre proiettili da sinistra a destra e del singolo colpo da destra a sinistra è diversa. Una diversa origine temporale, infatti, è molto difficile da argomentare, stante che nessuna tra le ferite è post mortem.

   Analizziamo quindi questi quattro colpi, facendoci aiutare da Arcese e Jadevito, ma anche dal Prof. De Fazio e, soprattutto, dalle parole del Prof. Montalto, rese vive dalla sua testimonianza giurata:

 1)              un primo colpo (nota bene: si scrive primo e si scriverà successivamente secondo, terzo e quarto solo per facilità espositiva e per seguire il Prof. Montalto ed in alcun modo per voler fornire un criterio temporale) è penetrato in corrispondenza della spalla sinistra (faccia posteriore della spalla sinistra). Esso ha finito la sua corsa nel contesto della cavità articolare, con proiettile ritenuto. Questo colpo, pertanto, ha compiuto un percorso di pochi centimetri (forse solo 5-6 cm), da destra a sinistra, dal basso verso l’alto, fermandosi (dalla disamina balistica di Arcese e Jadevito si evince anche in parte frammentandosi)  proprio “nel cavo articolare”. Non risulta che sia stato fermato da una parete ossea e/o che abbia leso strutture ossee.

2)               Un secondo colpo (vedi la precisazione di cui al punto 1, come “nota bene”) è penetrato in corrispondenza della faccia posteriore dell'emitorace sinistro all'altezza del sesto spazio intercostale, quindi ”sotto il precedente” (scrive il Prof. Montalto). Il proiettile percorre – a differenza del precedente – un tramite molto lungo: entra nel polmone sinistro, lede l’atrio di sinistra (quindi la parte superiore del cuore, nella sua metà sinistra), lede la polmonare di sinistra (si intende, immaginiamo: l’arteria polmonare) e, quindi, il polmone destro. Un proiettile devastante, sicuramente mortale, che riesce ad uscire – dopo aver percorso non meno di 15 centimetri - in corrispondenza dell'emitorace destro (è quello perimammario). Direzione: da sinistra a destra e dal basso verso l’alto, sia pur lievemente.     Restiamo quindi ad un percorso di questo proiettile da spalla sinistra a mammella destra, parte superiore, a 3 cm dalla medio-sternale (cioè dalla linea che divide a metà lo sterno, verticalmente) e precisiamo in finale di paragrafo usando le parole del Dr Canessa (C) e del Prof. Montalto (M):

C: (rispetto al precedente)…. una maggiore obliquità sinistra/destra.

M: Sì, sì, ci sarebbe una obliquità da sinistra verso destra evidente.



3)               Un terzo colpo è più basso rispetto al precedente, ma sempre a livello dell’emitorace di sinistra.

   Esso colpisce la decima costa, “con un decorso leggermente obliquo, dal basso verso l'alto e da sinistra verso destra”.  Questo colpo è anch’esso devastante: attraversa il corpo del pancreas (sarebbe a dire la parte centrale, essendo il pancreas diviso in testa, a destra guardando dall’esterno verso il cavo addominale; corpo, situato al centro; e coda, che si trova a sinistra), la piccola ala del fegato (sarebbe la parte sinistra del fegato, più nota come piccolo lobo o lobo sinistro) e fuoriesce, sulla parete anteriore “nel confine fra il tratto toracico ed il tratto addominale”. Questo proiettile, pertanto, è il secondo che fuoriesce dal corpo, tra sterno ed ombelico. In sintesi: questo terzo colpo lede (notate bene, è importante) la decima costa (cioè una struttura ossea), a sinistra sul dorso, ma mantiene forza sufficiente per forare corpo del pancreas ed ala del fegato, per poi fuoriuscire al centro, lungo la linea xifo-ombelicale. Se immaginiamo l’addome di una donna minuta come era la sventurata Locci, se al colpo prima elencato al punto due possiamo far percorrere almeno 15 centimetri, al colpo qui elencato al numero 3 dobbiamo farne percorrere circa 10 (almeno). Ben difformi entrambi i colpi 2) e 3), quindi, per direzione e lunghezza del tramite, con il colpo elencato all’inizio del paragrafo con il numero 1. Quest’ultimo, infatti, percorre i pochi cm che ci sono tra spalla sinistra e cavo articolare omolaterale. Esso (non risulta) non si ferma dopo così breve percorso a causa di strutture ossee. Non le lede, non le interessa, non le intacca.



4)               Il quarto ed ultimo colpo è ritenuto, come il primo. Per rubare di nuovo le parole al Prof. Montalto: “Poi abbiamo il quarto, che sarebbe entrato in corrispondenza, ecco, sul limite fra la regione toracica - sempre nella faccia posteriore - al confine fra la regione toracica e la regione lombare sinistra”. Il decorso – come per i proiettili di cui ai punti 2 e 3 ed in difformità dal proiettile di cui al punto 1, è ancora una volta obliquo dal basso verso l'alto e da sinistra verso destra. Sembrerebbe quindi, se non fosse per la direzione del colpo 1), che la mano dello sparatore si sia abbassata rapidissimamente dalla spalla fino alla regione lombare della vittima femminile (oppure il contrario), spostandosi lievemente in direzione mediale, cioè dalla spalla sinistra verso la colonna vertebrale (se consideriamo che abbia abbassato la mira) oppure al contrario, dalla colonna vertebrale, a sinistra, con direzione verso la spalla sinistra (se vogliamo considerare che la mano dello sparatore si sia innalzata).    Questo colpo è molto particolare: esso (spiace doverlo dire) non è “toracico” (poco male: son dettagli ininfluenti, a nostro avviso) ed interessa nel suo percorso “a tutto spessore” il corpo della seconda vertebra lombare (appunto: lombare) e qui “probabilmente” (dice il medico che effettuò l’autopsia) viene deviato, a causa dello spessore del corpo vertebrale.

Comunque sia, come anticipato, anche questo proiettile 4) è ritenuto, come il numero 1), pur percorrendo un tramite più lungo, specie considerando l’arresto fornito nel caso 4) dall’attraversamento della seconda vertebra lombare, fermando la sua corsa nel sottocute, a livello dell’ottava costa. Anche in questo caso, se immaginiamo il tronco di una donna giovane e minuta come era la sventurata Locci, il tramite del proiettile numero 4) ha percorso almeno 10 cm. Se il colpo 3 ha solo “colpito” la decima costa, il colpo 4 ha, invece, interessato “a tutto spessore” la seconda vertebra lombare. Per questo, la lunghezza dei tragitti si  somiglia, ma uno solo dei due proiettili [il 3)] fuoriesce, mentre il 4) viene ritenuto. Il colpo 2), in accordo con l’assenza di impatto con strutture ossee, percorre un tragitto ben più lungo (intorno ai 15 cm almeno) e fuoriesce a livello della mammella destra. Stupisce, a tal proposito, la brevità e la direzione opposta del colpo 1): esso non incontra strutture ossee, non penetra nel torace o in addome, ma si ferma comunque dopo pochi centimetri: se immaginiamo la distanza tra spalla e cavo ascellare: un dito indice, nella sua lunghezza. Percorre pochi centimetri, da destra a sinistra, dal basso lievemente verso l’alto”. (Ferri)

Mi permetto di riassumere il dato che si ricava dall’accurata disamina di Ferri: un colpo (quello diverso dagli altri per direzionalità) si ferma nel cavo articolare dopo un percorso di pochi centimetri senza aver incontrato ostacoli; degli altri tre, uno fuoriesce (si ferma probabilmente nel vestito) dopo aver colpito la decima costola, uno fuoriesce dopo aver attraversato da sinistra a destra tutto il torace, uno si ferma nel sottocute dopo aver impattato una vertebra. Una notevole differenza di energia cinetica tra il primo colpo e gli altri tre.


A questo punto, cosa ci impedisce di pensare che il terzo proiettile che andiamo cercando non sia affatto andato smarrito o volatilizzato, ma sia il colpo che dopo aver attraversato l’avambraccio di Lo Bianco colpisce la spalla della Locci? Sentiamo di nuovo il parere in proposito del prof. Ferri.

“ Innanzitutto notiamo che nella perizia Arcese – Jadevito si legge,  in riferimento al proiettile estratto dalla scapola (sic) della vittima femminile, fotografia n.97, che “trattasi di grosso frammento”, non di un proiettile intero, di tipo ramato. Di più, per lo stesso proiettile i periti riscontrano: "profonde deformazioni da impatto balistico”. Orbene, premesso che non capisco nulla di armi, devo chiedermi perché questo proiettile si è frammentato e profondamente deformato così tanto, se non ne è descritto l'impatto con alcuna struttura ossea.  La mancata descrizione potrebbe essere una banale dimenticanza, ma resta il fatto che di scritto non abbiamo nulla. E’ strano: negli altri casi hanno precisato quando il proiettile impattava una struttura ossea. Qui, desumo dall’assenza di citazione analoga, il proiettile di cui alla foto n. 97 (quello che per ipotesi  avrebbe prima colpito il povero Lo Bianco) ha impattato solo cute, sottocute, muscolo e tendini.  Curioso: è l’unico proiettile così tanto malmesso, di quelli che attinsero la povera Barbara Locci, malgrado abbia fatto non più di 7 cm in tessuti che noi poveri medici definiamo “molli”. Gli altri hanno colpito ossa e parenchimi e sono rimasti interi. “

Quindi, per quanto attiene alla possibilità che un proiettile singolo abbia colpito entrambe le vittime: essa è tutt’altro che assurda  In merito, pur essendo il sottoscritto solo un appassionato del caso e non avendo il medesimo mai avuto accesso ad altro che non sia ciò che il web e le librerie ci offrono, è chiaramente “possibile affermare che è possibile”. Questo, in particolare, anche solo osservando come soltanto uno dei proiettili che hanno attinto lo sventurato Lo Bianco non sia entrato poi nel suo corpo, come invece hanno fatto i restanti tre. Il proiettile “sparito” in questione è quello dell’avambraccio sinistro, per cui val la pena rileggere quanto scrive il Prof. De Fazio: “due lesioni, rispettivamente foro di entrata e foro di uscita sull'avambraccio sinistro, riferibili a medesimo proiettile perché uniti da unico tramite con traiettoria da sinistra a destra concordemente alle lesioni precedenti”.

   Questo proiettile sparito, è ovvio, può essere benissimo finito chissà dove e, ne consegue, ogni dissertazione in merito può essere solo un modo per gettare un po’ di tempo prezioso. Pur tuttavia, se questo proiettile fosse entrato nell’avambraccio della vittima mentre egli era nella posizione in cui è stato trovato (“l'uomo giaceva supino sul sedile anteriore destro, che era ribaltato; le mani reggevano i pantaloni con cinghia e bottoni slacciati”) non si comprende affatto come sia stato possibile che questo proiettile, diversamente dagli altri tre, non abbia colpito poi il tronco o gli arti inferiori del povero Lo Bianco.

    Potremmo, pertanto, immaginare che la vittima maschile sia stata sorpresa dallo sparatore mentre con la mano ricopriva la spalla sinistra della vittima femminile, seduta accanto a sinistra e prona con il tronco su di lui (si tratta, ovviamente, di postulare un’ipotesi di contatto fisico tra i due, ipotesi per altro non nuova, che – per la delicatezza del caso ed il rispetto verso una tragedia – lasciamo alla vostra immaginazione). Ciò spiegherebbe perfettamente la direzione del tramite nell’avambraccio della vittima maschile (da sinistra a destra) e – ammettendo che il medesimo proiettile abbia poi colpito quella femminile – anche la direzione da destra a sinistra, dal basso verso l’alto che è descritta per il tramite spalla sinistra-cavità articolare che abbiamo descritto al punto 1). Questo tipo di ricostruzione – certamente del tutto arbitraria, ma non per questo infondata – permette di spiegare perfettamente le diverse direzioni dei tramiti: tutti dall’alto verso il basso per la vittima maschile, tutti dal basso verso l’alto per la vittima femminile, in cui però solo quello di cui al punto 1) ha direzione destra-sinistra e non sinistra-destra.

 Resta da spiegare la posizione in cui furono trovati i due corpi, totalmente dissonante da qualsiasi descrizione sul tavolo autoptico per quanto attiene la vittima femminile e non assonante con quanto abbiamo or ora precisato nel caso di quella maschile. Per quanto attiene la sventurata Locci, la spiegazione è fin troppo semplice: il corpo fu spostato (e forse parzialmente rivestito). Il caso della vittima maschile è più complesso da spiegare, anche perché non abbiamo in nostro possesso delle fotografie chiare e possiamo solo far ricorso a quel che di fotografico (poco) è stato pubblicato, alle perizie ed alle testimonianze in aula. Malgrado questi limiti, a noi non pare verosimile che il Lo Bianco sia stato colpito a morte mentre con la mano sinistra si reggeva la cinta dei pantaloni o i pantaloni stessi, come in un disperato tentativo di rivestirsi e fuggire. Se così fosse stato, infatti, il proiettile uscito dall’avambraccio sinistro lo avrebbe poi colpito al tronco. Pertanto, come scrive il Prof. De Fazio a proposito di questa lesione da arma da fuoco a livello dell’avambraccio: “La traiettoria sui piani anteroposteriore e craniopodalico può essere stata variabilissima in rapporto ai movimenti dell'avambraccio sul braccio: la traiettoria potrebbe essere in rapporto, nella dinamica globale, a reazione di difesa”.  Ancor più semplicemente, pur essendo l’ipotesi della reazione di difesa – e quindi di un avambraccio sinistro che è impossibile sapere dove potesse trovarsi – credibilissima; è verosimile che il braccio sinistro del Lo Bianco fosse adeso al suo tronco, mentre l’avambraccio e la mano di sinistra fossero sopra la spalla sinistra della Locci, a sua volta prona con il tronco sulla vittima maschile.  Questo spiega perfettamente come mai la traiettoria di questo proiettile ha un andamento sinistra-destra nella vittima maschile ed opposto nella vittima femminile e, in totale assonanza con ciò, perché nella vittima femminile il tramite spalla-cavo articolare è dal basso verso l’alto.

   Ipotesi alternative rispetto a quanto sopra, in assenza di prove, se ne possono fare a decine: ad esempio si potrebbe ipotizzare che la sventurata donna fosse non prona con il tronco, bensì seduta sopra la vittima maschile, dandogli però le spalle: ciò anche spiegherebbe – per la diversa distanza dal pianale della vettura dei due corpi – il diverso andamento dei colpi. Pur ciò considerando, anche in questo caso è possibile ripetere come la mano sinistra della vittima maschile poggiata sulla spalla di quella femminile ampiamente giustifichi, in presenza di un movimento di difesa della donna, la direzione di tutti i tramiti e l’ipotesi di un proiettile trapassante che colpisce prima l’avambraccio del Lo Bianco e poi la spalla della Locci”.  (Ferri)

Osserviamo, en passant, che le autopsie sui cadaveri furono eseguite da due distinti specialisti, il prof. Montalto per la Locci, il dott. Graziuso sul Lo Bianco. Ciascuno dei due poteva solo, logicamente, rilevare quattro colpi per cadavere, senza avere la possibilità di fare ulteriori valutazioni; poi, chi di dovere (i carabinieri), si limitò a fare due più due (o meglio, 4 + 4 = 8).

I colpi furono esplosi o dal finestrino posteriore sinistro parzialmente aperto o dalla portiera anteriore aperta dall’assassino o una combinazione dei due casi; e a brevissima distanza, due con la pistola all’interno dell’abitacolo come testimoniano i bossoli rinvenuti. Nell’auto non vi erano spiragli o aperture se non quelli dai quali vennero esplosi i colpi. La differente traiettoria dei colpi che attingono la Locci può essere spiegata con un movimento della vittima (tentativo di fuga o nascondimento) o uno spostamento dello sparatore (dal finestrino posteriore alla portiera anteriore) o, ancor meglio, entrambe le cose. In conclusione, però, quale sia stata la posizione delle vittime al momento dell’inizio dell’azione omicidiaria, un unico proiettile che li colpisce entrambi risulta molto più credibile di due proiettili dei quali uno svanisce nel nulla. Ma a questo punto, dobbiamo pensare che i colpi sparati a Signa non furono, come si è sempre detto e ripetuto otto, ma soltanto sette. E la testimonianza di Stefano Mele?

(continua)