![]() |
Via Vingone 154, notturna (ringrazio l'anonimo autore di questa suggestiva immagine tratta da Internet) |
E’ chiaro, sulla base di quanto scritto fin qui, che Mele
mente: propone infatti agli inquirenti quattro versioni diverse in quattro
giorni di interrogatori (la domenica si riposò). Si passa da una professione di
totale innocenza e ignoranza, con sospetti gettati sugli amanti della moglie,
all’accusa verso Salvatore, poi contro Francesco Vinci, infine contro Cutrona.
La domanda a cui dobbiamo rispondere è: una di queste versioni ha maggiori probabilità
rispetto alle altre di essere vera o sono invece tutte false? E se sono tutte
false, Mele sa cosa sia effettivamente successo quella notte a Signa o
attraverso le accuse esplicita in realtà solo i suoi sospetti sulla persona
dell’assassino? Infine, con le sue bugie Mele sta coprendo qualcuno?
L’analisi storica ci mostra che quasi tutte le alternative (escludendo
Cutrona, che, dopo il demenziale confronto che abbiamo riportato, scompare
dalla scena) vennero esplorate, nell’immediatezza o nel seguito. Francesco
Vinci fu subito individuato dopo la scoperta del collegamento tra Signa e i
delitti successivi, incarcerato (e poi liberato) nell’indagine condotta dal
G.I. Tricomi. Salvatore Vinci fu l’oggetto principale delle attenzioni del G.I.
Rotella dal 1984 (dopo il delitto di Vicchio) al 1989. L’innocenza del Mele
venne sostenuta da Canessa nel primo processo a Pietro Pacciani. Si tratta di
ipotesi, quindi, passate al vaglio delle indagini e tutte sostanzialmente
fallite; il che peraltro non significa molto di per sé, in quanto la mancanza
di prove non equivale a innocenza nel giudizio storico.
Quello che però è necessario sottolineare è la malleabilità
del Mele alle influenze esterne. Se il 22 agosto nomina quattro possibili
sospetti in quanto amanti, eventualmente gelosi, della moglie, in serata, se è
vero quanto dirà Natalino nel 1969, si orienta autonomamente verso Francesco Vinci:
il più geloso e violento degli amanti, oltre che notoriamente (a suo dire)
armato. Stranamente, in seguito alla visita dei familiari la mattina dopo, l’accusa
viene rivolta, e questa volta con molta più precisione, contro Salvatore; ma
con modalità tali che si capisce che si sta riferendo ancora a Francesco. In
altre parole, cambia il nome, ma lo schema mentale del Mele rimane lo stesso:
amante geloso, prepotente, minaccioso nei confronti suoi e della moglie =
assassino. Quale influenza abbiano avuto il colloquio con i parenti e
l’assistenza di Mucciarini in caserma, non è facile dire; è probabile che
Stefano sospettasse di Francesco mentre i familiari ritenevano più pericoloso
Salvatore e lo abbiano influenzato in tal senso, quando già lui aveva
condizionato Natalino; ovviamente, l’ipotesi regge solo ammettendo che la
famiglia Mele in toto non fosse coinvolta nel delitto, ossia che fossero tutti
ugualmente ignoranti e sospettassero a caso. Quanto alla nota frase di Natalino di
aver visto “Salvatore tra le canne”, attribuita allo zio Piero / Pietro, è
evidente che non poté essere pronunciata testualmente da Piero Mucciarini, che
così facendo avrebbe ammesso di trovarsi sul posto. Una spiegazione più logica è che lo zio
abbia, come in effetti disse, “sondato il bambino” nei giorni in cui era
affidato alla zia Antonietta per avere conferma delle accuse formulate da
Stefano e gli abbia chiesto se avesse visto Salvatore (il presunto complice del
padre) tra le canne; una domanda che nelle dichiarazioni del piccolo diventerà
un’affermazione, ma che non aveva necessariamente un intento malevolo.
La
storia raccontata alla sera, nel verbale di confessione, è l’evoluzione di
quella della mattina: se prima aveva accusato Salvatore di aver voluto uccidere
la Locci, una volta ammesso sotto pressione di essere lui stesso l’assassino, lo
coinvolge almeno come complice, ispiratore del delitto e proprietario
dell’arma. Ma, tralasciando altri elementi di scarsa plausibilità, che abbia fatto
fuoco lui è assolutamente improbabile, vista l’estrema precisione dello sparatore
di Signa; lo dirà lui stesso, in un interrogatorio del 26 agosto, facendo
osservare che non poteva compiere il delitto da solo, giacché non sapeva
sparare (Rotella 2.7) [Nota: l’affermazione che Mele sapeva sparare perché
aveva assolto il servizio militare è risibile: i soldati di leva dell’esercito
non toccavano la pistola, che è l’arma degli ufficiali].
Salvatore ha un alibi, confermato da terzi; avendolo
appreso, Stefano rivolge l’accusa su Francesco. Abbiamo pochi particolari
sull’interrogatorio: sostanzialmente cambiando nome del complice Mele gli attribuisce però sia la volontà che l’esecuzione
materiale dell’omicidio e si riduce al ruolo di spettatore coartato [Nota: anche
qui abbiamo una corrispondenza – a mio parere impressionante – con i racconti
che Giancarlo Lotti farà 28 anni dopo].
Quando poi gli inquirenti gli fanno osservare che l’esito del guanto di
paraffina è negativo su Francesco, ma positivo su di lui e su Cutrona, prende
ad accusare Cutrona, accusa che manterrà per alcuni mesi, finché, il 3 febbraio
1969, davanti al Giudice Istruttore, per un impulso che non possiamo comprendere
dalla lettura dei documenti disponibili, torna ad accusare Francesco Vinci. Ma
cambiando i nomi, rimane fermo sullo schema che ha in mente: un amante geloso
ha ucciso la moglie, portandolo, non si sa bene per quale motivo, con sé. Solo
la prima accusa a Salvatore ha un elemento di diversità, in quanto l’amante è
solo il procacciatore dell’arma e istigatore del delitto, mentre lui stesso, il marito, è esecutore
materiale.
Riepilogando:
- la prima versione è l’estraneità, ma il sospetto verso alcuni amanti della moglie;
- la seconda versione, dopo l’abboccamento con i parenti, è la colpevolezza di Salvatore, ma con un movente assolutamente astruso;
- sotto la pressione degli inquirenti, ammette di aver sparato lui, su istigazione e con l’arma di Salvatore;
- quando apprende che Salvatore ha un alibi, trasferisce l’accusa su Francesco;
- quando apprende che la prova del guanto di paraffina su Francesco è negativa, accusa Cutrona, ma non per sua scienza diretta, ma perché “se gli accertamenti sono come dite voi, vuol dire che è stato Cutrona”.
Analoghe girandole farà riguardo a Natalino, dicendo prima
di non sapere nulla, essendo subito scappato dal luogo dell’omicidio; poi che è stato accompagnato (e minacciato) da
Francesco Vinci; infine, dopo che il bambino ha confermato a Ferrero di essere
stato accompagnato dal padre, ammette di averlo accompagnato lui, a una casa di
contadini (il che non è), ma non sa dire il motivo: “Io portai il bambino fino alla casa dove poi suonò il campanello; lo
portai in braccio fino a lì. Gli feci suonare il campanello perché portarlo a
casa era troppo lontano. Invitato a spiegare la ragione per cui invece di
portare a casa il bambino lo abbia invitato a suonare a quella abitazione dopo
quanto era accaduto, l’imputato si stringe nelle spalle e non risponde”
(interrogatorio di Stefano Mele 3 febbraio 1969 dinanzi al G.I. Giovangualberto
Alessandri). Il contesto si sarebbe chiarito se solo i CC gli avessero fatto
rifare il percorso, come fecero con Natalino, che effettivamente dimostrò di
averlo percorso a piedi. Scrive Rotella: "E
tanto concerne il tratto da Signa al bivio della stradina dell'omicidio e
ritorno, e già rende improbabile che conoscesse in dettaglio l'ulteriore
tratto, dalla vettura degli uccisi alla casa di De Felice. Durante le indagini del 1968, non glielo si era mai fatto percorrere,
stimandosi sufficiente quanto aveva dichiarato circa l'accompagnamento del
figlio. Nel 1985, condottovi, non ha mostrato di riconoscerlo. Ha sbagliato
più volte l'itinerario e indicato svariate coloniche, senza avvedersi, dal
ponticino in poi, che, seppur lontana, la casa (che erroneamente, nel 1968,
indica come casa di contadini e, nel 1982 'fattoria') era
davanti a lui, illuminata, ora come allora, dal fanale civico della Pistoiese. Salvo a voler stimare che, trascorsi molti anni la
sua memoria si sia, e comprensibilmente, offuscata, non risulta che avesse
cognizione dei luoghi tale dai consentirgli l'accompagnamento e l'avventuroso
ritorno (per quanto sembri aver descritto con molta verisimiglianza il suo
viaggio notturno con il bambino nell'interrogatorio del 26 agosto 1968)"
[Nota: non abbiamo il verbale del 26 agosto, quindi non possiamo giudicare la
verosimiglianza del racconto; nel giugno 1985, a Rotella che gli fa rifare la
strada per Sant’Angelo a Lecore, Mele dirà: “la
verità è che io in quel posto, la prima volta che ci sono andato è proprio
quella sera che mi avete portato voi!“ (Torrisi) Ma quante volte Mele ha detto:
“La verità è…”; ovviamente non siamo obbligati a credergli, né in un senso né
nell’altro].
Non possiamo evitare la sensazione che Mele non sappia
nulla, ma menta inventando, raccontando come verità alle quali ha assistito ciò
che presume sia veramente avvenuto e dando contemporaneamente sfogo al suo
senso di rivalsa contro i prepotenti amanti della moglie. Se è così, la sua
primissima versione, di essere stato a letto, malato e inconsapevole, è vera.
Naturalmente, adottando tale posizione dobbiamo spiegare quegli elementi della
scena del crimine che Mele effettivamente dimostra di conoscere. Poiché Mele,
contrariamente a quello che venne sostenuto all’epoca, non rivela alcun
dettaglio che fosse ignoto agli inquirenti, dobbiamo confidare nella buona fede
e correttezza degli investigatori nell’esecuzione del sopralluogo e nella sua
verbalizzazione. E’ inutile disquisire su particolari poco significativi (la
scarpa fuori posto, la catenina spezzata): se Mele effettivamente conosceva la
posizione della macchina del Lo Bianco, come scrive Matassino, ogni dubbio
sulla sua presenza sul posto viene a cadere. Rileggiamo il rapporto
giudiziario: “Dopo diversi giri viziosi
si arriva al cimitero di Signa ove viene fatta fermare l’autovettura e si
prosegue a piedi. Per evitare che il Mele possa essere influenzato dagli
inquirenti viene fatto camminare avanti, ad una certa distanza, e da solo. Gli
inquirenti seguono i suoi passi. Il Mele raggiunta la estremità delle mura del
cimitero si ferma, si orienta, e quindi procede diritto fino a fermarsi
all’inizio della strada interpoderale Signa – Sant’Angelo a Lecore. Dopo un
attimo la imbocca, percorre circa 150 metri e si ferma quasi sul punto preciso
ove è stata rinvenuta l’auto con i due cadaveri. Per meglio ricostruire la
scena viene fatta portare sul posto una Giulia…”. Non c’è possibilità che Mele individui autonomamente il posto
esatto, se non vi era già stato: si tratta infatti, dalle mura del cimitero di
Signa all’incrocio con la stradina che costeggia il Vingone, di un percorso su
via di Castelletti di ben 1314 metri [Nota: calcolati utilizzando Google Earth]
e con due strade secondarie sulla destra che intersecano la strada principale
prima di quella giusta.
A questo punto, dobbiamo precisare che l’assenza di Mele dal
luogo del delitto non esclude, naturalmente, che a compierlo sia stato uno o
più dei personaggi che furono indagati, ma implica semplicemente che lui non abbia
davvero contezza del colpevole. Come sappiamo, al processo di Cagliari per l’omicidio
di Barbarina Steri scagionerà Salvatore, dopo di che tornerà ad attribuire il
delitto di Signa a Francesco Vinci, un leit-motiv
che, con interruzioni e pause dovute alle indagini, ripete in fin dei conti
dall’agosto 1968.
![]() |
La Stampa 19 aprile 1988 |
Accertato che Mele mente, in gran parte o del tutto, se non
ha partecipato al delitto la questione è subito chiusa: sta calunniando per
vendetta delle persone contro cui nutre risentimenti e la sua testimonianza non
vale nulla. Se è partecipe dell’omicidio, la questione si fa più complessa; se
mente per proteggere il vero assassino, dobbiamo chiederci chi stia proteggendo
con le sue bugie e a costo di finire lui stesso in galera [Nota: e fu
imprigionato, per calunnia di nuovo nel 1985]. In questa prima fase, che stiamo
esaminando, Mele non accusa i suoi familiari, il che però non equivale a
proteggerli, giacché nessuno li sospetterà prima che Natalino, tempo dopo,
inizi a parlare dello “zio Piero”. Nel seguito, un tenue indizio di voler
distogliere l’attenzione dalla sua famiglia e in particolare da Mucciarini
(dopo le esternazioni in tal senso di Natalino) si ritroverà in un
interrogatorio del 26 maggio 1969, riportato sommariamente da Rotella: “Il 26
maggio 1969 il g.i. pone Mele di fronte al dilemma di chi
debba essere creduto tra lui stesso e suo figlio, che ha chiamato in causa
persone diverse da quelle indicate da lui, ed egli dichiara: "La legge non
crederà a me, ma naturalmente a mio figlio, perché è più giovane ed è innocente.
Io con questo non ho detto che dobbiate credere a mio figlio". Il giudice
gli rappresenta che il figlio ha accusato del duplice omicidio un suo parente e
Mele risponde: "Mio figlio chiamava zii anche gli amanti di mia
moglie". E, dopo ulteriori precisazioni circa riferimenti a Francesco
Vinci (...) di Natalino, rese per significare che altrimenti ha sempre detto
la verità, aggiunge: "Non so spiegarmi perché mio figlio parli in questi
termini. Mio figlio, dopo il mio arresto, è stato anche a trovare un giorno il
fratello della mamma…".
Certo non proteggerà in alcun modo i familiari nel 1984,
quando, non appena ritrovato l’enigmatico biglietto scrittogli dal fratello
Giovanni, non avrà remore ad accusare fratello e cognati, ma anche in questo
caso cambiando più volte versione, fino a quella, sommamente improbabile, di un
accordo tra la famiglia Mele e Salvatore Vinci [Nota: versione accolta da
Torrisi, disposto a tutto credere pur di poter accusare Salvatore Vinci]. E’
anche vero che in quel momento Stefano è probabilmente disamorato della
famiglia, che non lo ha riaccolto dopo la lunga carcerazione, lasciandolo a vegetare
in un ospizio per ex carcerati. Il senso di protezione può quindi essersi mutato
in astio, ma più probabilmente siamo di fronte soltanto a uno dei suoi
voltafaccia determinati dalla svolta delle indagini.
A questo punto dobbiamo citare l’interpretazione
del delitto di Signa data da Antonio Segnini in diversi articoli sul suo blog (da ultimo qui): un
omicidio organizzato dalla famiglia Mele, utilizzando un’arma fornita da
Salvatore Vinci, da lasciare poi sul posto per far ricadere la responsabilità
su quest’ultimo. Probabilmente mi sfuggono alcuni elementi dell’ipotesi
dell’amico Segnini, in particolare sul passaggio della pistola tra Vinci e i
Mele, e sono naturalmente ben disposto ad approfondirli se me ne darà
modo. L’ipotesi è molto ben congegnata,
mette a posto diversi particolari altrimenti difficili da armonizzare e dà
conto dell’accusa di Natalino allo zio Piero, che sarebbe, in fin dei conti, la
chiave vera del caso. Vi sono però alcuni punti dolenti, che elenco
velocemente. In primo luogo, la debolezza del movente: i Mele, per il resto una
famiglia di onesti lavoratori, avrebbero ucciso la cognata – pur se detestata –
e il poveretto che si trovava casualmente con lei per vendicare -dopo anni - l’onore offeso
di Stefano, per punirla di aver scialacquato le 450.000 lire dell’assicurazione
o cos’altro? Quand’anche fosse, non doveva esserci particolare fretta di compiere il
delitto, quindi perché procedere in presenza di Natalino, con il rischio, poi parzialmente concretatosi, di essere individuati? Perché lasciare la freccia di direzione
dell’auto accesa e accompagnare il bambino a piedi di notte, pur avendo a
disposizione un’auto? Sono particolari che stonano in un delitto organizzato;
aggiungiamo che anche Rotella, riguardo all’alibi di Mucciarini, pur
approfondendo al massimo [Nota: era lui che l’aveva, su deboli indizi,
rinchiuso in galera, quindi ogni elemento che poteva sostenere l’accusa era il
benvenuto], dovette concludere che “si è
appurato, documentalmente, che egli risulta al lavoro, presso il forno Buti di
Scandicci, nella zona di Casellina, quella notte”. Ma quello che appare veramente poco credibile
nell’ipotesi che il delitto sia frutto di un complotto di famiglia è la
discordanza delle versioni: gli assassini non si sarebbero accordati prima su
una storia plausibile da fornire agli inquirenti, sicché Stefano in prima
battuta accusa Francesco, mentre i parenti indirizzano su Salvatore: già questo
elemento porta ad escludere una concertazione, a meno di un delitto d’impeto,
che allora non sarebbe compatibile con un piano studiato, alibi falsi ecc.
![]() |
23 agosto 1968 - la confessione tra le canne |
Non siamo più in grado di ricostruire con ragionevole
certezza la verità sul delitto di Signa, a causa degli inquinamenti apportati
alle indagini da Stefano Mele, dall’influenza probabile della famiglia sul
piccolo Natalino, dagli errori degli inquirenti, in quell’indagine e in quelle
successive afferenti la “pista sarda”. Il soggetto che, alla riapertura del
caso, nel 1982, venne subito sospettato e incarcerato, fu scagionato dal Mostro
stesso, se non per il 1968, almeno, e senza ombra di dubbio, per i delitti
successivi. Trascorsi sei anni dalla pubblicazione del libro di cui questo blog
è figlio, la nuova, pur interessantissima, documentazione emersa non aiuta a
chiarire i dubbi, ma semmai li aumenta. Questo lungo articolo non può
rappresentare altro che un aggiornamento, approfondimento e messa a punto, che
sentivo di dovere ai lettori.