venerdì 27 settembre 2019

Quella notte a Signa (4)

Via Vingone 154, notturna (ringrazio l'anonimo autore di questa suggestiva immagine tratta da Internet)


 E’ chiaro, sulla base di quanto scritto fin qui, che Mele mente: propone infatti agli inquirenti quattro versioni diverse in quattro giorni di interrogatori (la domenica si riposò). Si passa da una professione di totale innocenza e ignoranza, con sospetti gettati sugli amanti della moglie, all’accusa verso Salvatore, poi contro Francesco Vinci, infine contro Cutrona. La domanda a cui dobbiamo rispondere è: una di queste versioni ha maggiori probabilità rispetto alle altre di essere vera o sono invece tutte false? E se sono tutte false, Mele sa cosa sia effettivamente successo quella notte a Signa o attraverso le accuse esplicita in realtà solo i suoi sospetti sulla persona dell’assassino? Infine, con le sue bugie Mele sta coprendo qualcuno?
L’analisi storica ci mostra che quasi tutte le alternative (escludendo Cutrona, che, dopo il demenziale confronto che abbiamo riportato, scompare dalla scena) vennero esplorate, nell’immediatezza o nel seguito. Francesco Vinci fu subito individuato dopo la scoperta del collegamento tra Signa e i delitti successivi, incarcerato (e poi liberato) nell’indagine condotta dal G.I. Tricomi. Salvatore Vinci fu l’oggetto principale delle attenzioni del G.I. Rotella dal 1984 (dopo il delitto di Vicchio) al 1989. L’innocenza del Mele venne sostenuta da Canessa nel primo processo a Pietro Pacciani. Si tratta di ipotesi, quindi, passate al vaglio delle indagini e tutte sostanzialmente fallite; il che peraltro non significa molto di per sé, in quanto la mancanza di prove non equivale a innocenza nel giudizio storico.
Quello che però è necessario sottolineare è la malleabilità del Mele alle influenze esterne. Se il 22 agosto nomina quattro possibili sospetti in quanto amanti, eventualmente gelosi, della moglie, in serata, se è vero quanto dirà Natalino nel 1969, si orienta autonomamente verso Francesco Vinci: il più geloso e violento degli amanti, oltre che notoriamente (a suo dire) armato. Stranamente, in seguito alla visita dei familiari la mattina dopo, l’accusa viene rivolta, e questa volta con molta più precisione, contro Salvatore; ma con modalità tali che si capisce che si sta riferendo ancora a Francesco. In altre parole, cambia il nome, ma lo schema mentale del Mele rimane lo stesso: amante geloso, prepotente, minaccioso nei confronti suoi e della moglie = assassino. Quale influenza abbiano avuto il colloquio con i parenti e l’assistenza di Mucciarini in caserma, non è facile dire; è probabile che Stefano sospettasse di Francesco mentre i familiari ritenevano più pericoloso Salvatore e lo abbiano influenzato in tal senso, quando già lui aveva condizionato Natalino; ovviamente, l’ipotesi regge solo ammettendo che la famiglia Mele in toto non fosse coinvolta nel delitto, ossia che fossero tutti ugualmente ignoranti e sospettassero a caso. Quanto alla nota frase di Natalino di aver visto “Salvatore tra le canne”, attribuita allo zio Piero / Pietro, è evidente che non poté essere pronunciata testualmente da Piero Mucciarini, che così facendo avrebbe ammesso di trovarsi sul posto.  Una spiegazione più logica è che lo zio abbia, come in effetti disse, “sondato il bambino” nei giorni in cui era affidato alla zia Antonietta per avere conferma delle accuse formulate da Stefano e gli abbia chiesto se avesse visto Salvatore (il presunto complice del padre) tra le canne; una domanda che nelle dichiarazioni del piccolo diventerà un’affermazione, ma che non aveva necessariamente un intento malevolo. 
La storia raccontata alla sera, nel verbale di confessione, è l’evoluzione di quella della mattina: se prima aveva accusato Salvatore di aver voluto uccidere la Locci, una volta ammesso sotto pressione di essere lui stesso l’assassino, lo coinvolge almeno come complice, ispiratore del delitto e proprietario dell’arma. Ma, tralasciando altri elementi di scarsa plausibilità, che abbia fatto fuoco lui è assolutamente improbabile, vista l’estrema precisione dello sparatore di Signa; lo dirà lui stesso, in un interrogatorio del 26 agosto, facendo osservare che non poteva compiere il delitto da solo, giacché non sapeva sparare (Rotella 2.7) [Nota: l’affermazione che Mele sapeva sparare perché aveva assolto il servizio militare è risibile: i soldati di leva dell’esercito non toccavano la pistola, che è l’arma degli ufficiali].
Salvatore ha un alibi, confermato da terzi; avendolo appreso, Stefano rivolge l’accusa su Francesco. Abbiamo pochi particolari sull’interrogatorio: sostanzialmente cambiando nome del complice  Mele gli attribuisce però sia la volontà che l’esecuzione materiale dell’omicidio e si riduce al ruolo di spettatore coartato [Nota: anche qui abbiamo una corrispondenza – a mio parere impressionante – con i racconti che Giancarlo Lotti farà 28 anni dopo].  Quando poi gli inquirenti gli fanno osservare che l’esito del guanto di paraffina è negativo su Francesco, ma positivo su di lui e su Cutrona, prende ad accusare Cutrona, accusa che manterrà per alcuni mesi, finché, il 3 febbraio 1969, davanti al Giudice Istruttore, per un impulso che non possiamo comprendere dalla lettura dei documenti disponibili, torna ad accusare Francesco Vinci. Ma cambiando i nomi, rimane fermo sullo schema che ha in mente: un amante geloso ha ucciso la moglie, portandolo, non si sa bene per quale motivo, con sé. Solo la prima accusa a Salvatore ha un elemento di diversità, in quanto l’amante è solo il procacciatore dell’arma e istigatore del delitto, mentre lui stesso, il marito, è esecutore materiale.
Riepilogando:

  • la prima versione è l’estraneità, ma il sospetto verso alcuni amanti della moglie;
  • la seconda versione, dopo l’abboccamento con i parenti, è la colpevolezza di Salvatore, ma con un movente assolutamente astruso;
  • sotto la pressione degli inquirenti, ammette di aver sparato lui, su istigazione e con l’arma di Salvatore;
  • quando apprende che Salvatore ha un alibi, trasferisce l’accusa su Francesco;
  • quando apprende che la prova del guanto di paraffina su Francesco è negativa, accusa Cutrona, ma non per sua scienza diretta, ma perché “se gli accertamenti sono come dite voi, vuol dire che è stato Cutrona”.

Analoghe girandole farà riguardo a Natalino, dicendo prima di non sapere nulla, essendo subito scappato dal luogo dell’omicidio;  poi che è stato accompagnato (e minacciato) da Francesco Vinci; infine, dopo che il bambino ha confermato a Ferrero di essere stato accompagnato dal padre, ammette di averlo accompagnato lui, a una casa di contadini (il che non è), ma non sa dire il motivo: “Io portai il bambino fino alla casa dove poi suonò il campanello; lo portai in braccio fino a lì. Gli feci suonare il campanello perché portarlo a casa era troppo lontano. Invitato a spiegare la ragione per cui invece di portare a casa il bambino lo abbia invitato a suonare a quella abitazione dopo quanto era accaduto, l’imputato si stringe nelle spalle e non risponde” (interrogatorio di Stefano Mele 3 febbraio 1969 dinanzi al G.I. Giovangualberto Alessandri). Il contesto si sarebbe chiarito se solo i CC gli avessero fatto rifare il percorso, come fecero con Natalino, che effettivamente dimostrò di averlo percorso a piedi. Scrive Rotella: "E tanto concerne il tratto da Signa al bivio della stradina dell'omicidio e ritorno, e già rende improbabile che conoscesse in dettaglio l'ulteriore tratto, dalla vettura degli uccisi alla casa di De Felice. Durante le indagini del 1968, non glielo si era mai fatto percorrere, stimandosi sufficiente quanto aveva dichiarato circa l'accompagnamento del figlio. Nel 1985, condottovi, non ha mostrato di riconoscerlo. Ha sbagliato più volte l'itinerario e indicato svariate coloniche, senza avvedersi, dal ponticino in poi, che, seppur lontana, la casa (che erroneamente, nel 1968, indica come casa di contadini e, nel 1982  'fattoria') era davanti a lui, illuminata, ora come allora, dal fanale civico della Pistoiese. Salvo a voler stimare che, trascorsi molti anni la sua memoria si sia, e comprensibilmente, offuscata, non risulta che avesse cognizione dei luoghi tale dai consentirgli l'accompagnamento e l'avventuroso ritorno (per quanto sembri aver descritto con molta verisimiglianza il suo viaggio notturno con il bambino nell'interrogatorio del 26 agosto 1968)" [Nota: non abbiamo il verbale del 26 agosto, quindi non possiamo giudicare la verosimiglianza del racconto; nel giugno 1985, a Rotella che gli fa rifare la strada per Sant’Angelo a Lecore, Mele dirà: “la verità è che io in quel posto, la prima volta che ci sono andato è proprio quella sera che mi avete portato voi!“ (Torrisi) Ma quante volte Mele ha detto: “La verità è…”; ovviamente non siamo obbligati a credergli, né in un senso né nell’altro].
Non possiamo evitare la sensazione che Mele non sappia nulla, ma menta inventando, raccontando come verità alle quali ha assistito ciò che presume sia veramente avvenuto e dando contemporaneamente sfogo al suo senso di rivalsa contro i prepotenti amanti della moglie. Se è così, la sua primissima versione, di essere stato a letto, malato e inconsapevole, è vera. Naturalmente, adottando tale posizione dobbiamo spiegare quegli elementi della scena del crimine che Mele effettivamente dimostra di conoscere. Poiché Mele, contrariamente a quello che venne sostenuto all’epoca, non rivela alcun dettaglio che fosse ignoto agli inquirenti, dobbiamo confidare nella buona fede e correttezza degli investigatori nell’esecuzione del sopralluogo e nella sua verbalizzazione. E’ inutile disquisire su particolari poco significativi (la scarpa fuori posto, la catenina spezzata): se Mele effettivamente conosceva la posizione della macchina del Lo Bianco, come scrive Matassino, ogni dubbio sulla sua presenza sul posto viene a cadere. Rileggiamo il rapporto giudiziario: “Dopo diversi giri viziosi si arriva al cimitero di Signa ove viene fatta fermare l’autovettura e si prosegue a piedi. Per evitare che il Mele possa essere influenzato dagli inquirenti viene fatto camminare avanti, ad una certa distanza, e da solo. Gli inquirenti seguono i suoi passi. Il Mele raggiunta la estremità delle mura del cimitero si ferma, si orienta, e quindi procede diritto fino a fermarsi all’inizio della strada interpoderale Signa – Sant’Angelo a Lecore. Dopo un attimo la imbocca, percorre circa 150 metri e si ferma quasi sul punto preciso ove è stata rinvenuta l’auto con i due cadaveri. Per meglio ricostruire la scena viene fatta portare sul posto una Giulia…”. Non c’è possibilità  che Mele individui autonomamente il posto esatto, se non vi era già stato: si tratta infatti, dalle mura del cimitero di Signa all’incrocio con la stradina che costeggia il Vingone, di un percorso su via di Castelletti di ben 1314 metri [Nota: calcolati utilizzando Google Earth] e con due strade secondarie sulla destra che intersecano la strada principale prima di quella giusta.  


A questo punto, dobbiamo precisare che l’assenza di Mele dal luogo del delitto non esclude, naturalmente, che a compierlo sia stato uno o più dei personaggi che furono indagati, ma implica semplicemente che lui non abbia davvero contezza del colpevole. Come sappiamo, al processo di Cagliari per l’omicidio di Barbarina Steri scagionerà Salvatore, dopo di che tornerà ad attribuire il delitto di Signa a Francesco Vinci, un leit-motiv che, con interruzioni e pause dovute alle indagini, ripete in fin dei conti dall’agosto 1968.
La Stampa 19 aprile 1988


Accertato che Mele mente, in gran parte o del tutto, se non ha partecipato al delitto la questione è subito chiusa: sta calunniando per vendetta delle persone contro cui nutre risentimenti e la sua testimonianza non vale nulla. Se è partecipe dell’omicidio, la questione si fa più complessa; se mente per proteggere il vero assassino, dobbiamo chiederci chi stia proteggendo con le sue bugie e a costo di finire lui stesso in galera [Nota: e fu imprigionato, per calunnia di nuovo nel 1985]. In questa prima fase, che stiamo esaminando, Mele non accusa i suoi familiari, il che però non equivale a proteggerli, giacché nessuno li sospetterà prima che Natalino, tempo dopo, inizi a parlare dello “zio Piero”. Nel seguito, un tenue indizio di voler distogliere l’attenzione dalla sua famiglia e in particolare da Mucciarini (dopo le esternazioni in tal senso di Natalino) si ritroverà in un interrogatorio del 26 maggio 1969, riportato sommariamente da Rotella:  “Il 26 maggio 1969 il g.i. pone Mele di fronte al dilemma di chi debba essere creduto tra lui stesso e suo figlio, che ha chiamato in causa persone diverse da quelle indicate da lui, ed egli dichiara: "La legge non crederà a me, ma naturalmente a mio figlio, perché è più giovane ed è innocente. Io con questo non ho detto che dobbiate credere a mio figlio". Il giudice gli rappresenta che il figlio ha accusato del duplice omicidio un suo parente e Mele risponde: "Mio figlio chiamava zii anche gli amanti di mia moglie". E, dopo ulteriori precisazioni circa riferimenti a Francesco Vinci (...) di Natalino, rese per significare che altrimenti ha sempre detto la verità, aggiunge: "Non so spiegarmi perché mio figlio parli in questi termini. Mio figlio, dopo il mio arresto, è stato anche a trovare un giorno il fratello della mamma…".
Certo non proteggerà in alcun modo i familiari nel 1984, quando, non appena ritrovato l’enigmatico biglietto scrittogli dal fratello Giovanni, non avrà remore ad accusare fratello e cognati, ma anche in questo caso cambiando più volte versione, fino a quella, sommamente improbabile, di un accordo tra la famiglia Mele e Salvatore Vinci [Nota: versione accolta da Torrisi, disposto a tutto credere pur di poter accusare Salvatore Vinci]. E’ anche vero che in quel momento Stefano è probabilmente disamorato della famiglia, che non lo ha riaccolto dopo la lunga carcerazione, lasciandolo a vegetare in un ospizio per ex carcerati. Il senso di protezione può quindi essersi mutato in astio, ma più probabilmente siamo di fronte soltanto a uno dei suoi voltafaccia determinati dalla svolta delle indagini.  

 
La Nazione gennaio 1984 - articolo di Mario Spezi
A questo punto dobbiamo citare l’interpretazione del delitto di Signa data da Antonio Segnini in diversi articoli sul suo blog (da ultimo qui): un omicidio organizzato dalla famiglia Mele, utilizzando un’arma fornita da Salvatore Vinci, da lasciare poi sul posto per far ricadere la responsabilità su quest’ultimo. Probabilmente mi sfuggono alcuni elementi dell’ipotesi dell’amico Segnini, in particolare sul passaggio della pistola tra Vinci e i Mele, e sono naturalmente ben disposto ad approfondirli se me ne darà modo. L’ipotesi è molto ben congegnata, mette a posto diversi particolari altrimenti difficili da armonizzare e dà conto dell’accusa di Natalino allo zio Piero, che sarebbe, in fin dei conti, la chiave vera del caso. Vi sono però alcuni punti dolenti, che elenco velocemente. In primo luogo, la debolezza del movente: i Mele, per il resto una famiglia di onesti lavoratori, avrebbero ucciso la cognata – pur se detestata – e il poveretto che si trovava casualmente con lei per vendicare -dopo anni - l’onore offeso di Stefano, per punirla di aver scialacquato le 450.000 lire dell’assicurazione o cos’altro? Quand’anche fosse, non doveva esserci particolare fretta di compiere il delitto, quindi perché procedere in presenza di Natalino, con il rischio, poi parzialmente concretatosi, di essere individuati?  Perché lasciare la freccia di direzione dell’auto accesa e accompagnare il bambino a piedi di notte, pur avendo a disposizione un’auto? Sono particolari che stonano in un delitto organizzato; aggiungiamo che anche Rotella, riguardo all’alibi di Mucciarini, pur approfondendo al massimo [Nota: era lui che l’aveva, su deboli indizi, rinchiuso in galera, quindi ogni elemento che poteva sostenere l’accusa era il benvenuto], dovette concludere che “si è appurato, documentalmente, che egli risulta al lavoro, presso il forno Buti di Scandicci, nella zona di Casellina, quella notte”.  Ma quello che appare veramente poco credibile nell’ipotesi che il delitto sia frutto di un complotto di famiglia è la discordanza delle versioni: gli assassini non si sarebbero accordati prima su una storia plausibile da fornire agli inquirenti, sicché Stefano in prima battuta accusa Francesco, mentre i parenti indirizzano su Salvatore: già questo elemento porta ad escludere una concertazione, a meno di un delitto d’impeto, che allora non sarebbe compatibile con un piano studiato, alibi falsi ecc.

23 agosto 1968 - la confessione tra le canne



Non siamo più in grado di ricostruire con ragionevole certezza la verità sul delitto di Signa, a causa degli inquinamenti apportati alle indagini da Stefano Mele, dall’influenza probabile della famiglia sul piccolo Natalino, dagli errori degli inquirenti, in quell’indagine e in quelle successive afferenti la “pista sarda”. Il soggetto che, alla riapertura del caso, nel 1982, venne subito sospettato e incarcerato, fu scagionato dal Mostro stesso, se non per il 1968, almeno, e senza ombra di dubbio, per i delitti successivi. Trascorsi sei anni dalla pubblicazione del libro di cui questo blog è figlio, la nuova, pur interessantissima, documentazione emersa non aiuta a chiarire i dubbi, ma semmai li aumenta. Questo lungo articolo non può rappresentare altro che un aggiornamento, approfondimento e messa a punto, che sentivo di dovere ai lettori.

martedì 17 settembre 2019

Quella notte a Signa (3)


Vediamo ora più in dettaglio l’evoluzione delle dichiarazioni di Stefano Mele nei quattro o cinque giorni che decideranno, di fatto, l’esito giudiziario del caso.

Come leggiamo in “Al di là di ogni ragionevole dubbio”, nel primo interrogatorio, la mattina del 22 agosto, Mele fa il nome degli amanti della moglie: i tre fratelli Vinci (cronologicamente Giovanni, Salvatore e Francesco), Virgilio (= Carmelo Cutrona) e il nuovo arrivato Enrico (= Antonio Lo Bianco). In chiusura di verbale, esplicita particolari compromettenti nei confronti di Francesco Vinci e Carmelo Cutrona:

“Verso il mese di giugno, Vinci Francesco, uno degli amanti di mia moglie, ebbe a minacciarla di morte se frequentava altri uomini. (…) Sempre lo stesso Vinci ebbe a confidarmi che possedeva una pistola. Non mi disse però che tipo fosse e che calibro. (…) Circa il Virgilio, che voi mi dite chiamarsi Cutrona Carmelo, era amico di mia moglie, sono sicuro che i due fossero amanti. Al suo ritorno dal servizio militare, (Virgilio) venuto a conoscenza della relazione che esisteva tra mia moglie ed il giovane Enrico, si dimostrò molto contrariato. Appariva apertamente geloso. Ieri sera quando venne a casa e trovò anche Enrico si dimostrò nervoso ed appena Enrico andò via Virgilio andò in cucina con mia moglie.”

E’ questo il motivo per cui i due (e non altri), insieme allo stesso Mele, vengono sottoposti alla prova del guanto di paraffina, nella stessa giornata del 22 (Matassino). Quindi, alla prima audizione, la mattina dopo la scoperta del delitto, il Mele nomina (si intende, come possibili autori) gli amanti della moglie, elencandone cinque (uno dei quali, però, è proprio una delle vittime dell’omicidio) e puntando l’attenzione in particolare su due.

La notte il Mele la passa con il figlio, al quale suggerisce di dire di aver visto Francesco Vinci sul luogo del delitto (interrogatorio di Natalino del 21 aprile 1969); in coerenza con quanto aveva suggerito in mattinata agli investigatori.  La mattina successiva, Natalino viene probabilmente portato dalla zia Antonietta mentre il padre, dopo aver ricevuto la visita di sorelle e cognati (Rotella 7.3),  è condotto nella Stazione dei CC di Lastra a Signa, ove le indagini sono condotte dal Nucleo Investigativo di Firenze, nella persona del brigadiere Gerardo Matassino, assistito dal comandante della locale stazione  maresciallo Funari. All’interrogatorio assiste, non si sa bene per quale motivo, il cognato di Mele (marito di Antonietta Mele), Piero Mucciarini, che lavora come fornaio presso il Forno Buti a Casellina; già in altra occasione, peraltro, il Mucciarini aveva assistito il Mele, probabilmente incapace di cavarsela da solo, per ritirare i soldi dell’assicurazione a Prato (480.000 lire, gli stessi soldi che, secondo il PM, diventeranno il vero movente del duplice omicidio) o per saldare alcuni debiti.

Forse su suggerimento dei parenti (è ovviamente una supposizione non dimostrabile), Mele cambia obiettivo; se il giorno prima ha fatto insinuazioni soprattutto su Francesco (inducendo anche il figlio  - ma senza successo - a dire di averlo visto sul luogo del delitto), ora appunta i sospetti su Salvatore. Narra confusamente di due incidenti stradali causati da Salvatore nei quali è stato coinvolto. Rotella chiarirà meglio l’episodio del primo, risalente a parecchi anni prima:  “A costui [Salvatore], per significarne la prepotenza, attribuisce anche di aver intestato a nome Mele, nel 1960-61, una lambretta, cosicché avrebbe poi pagato lui i danni di un incidente occorso al vero proprietario e guidatore. Tal cosa sarà ripetuta il 3.12.82, nel corso di questa istruttoria — cfr. capo VIII. In effetti si tratta di un veicolo intestato a lui da S. Vinci, guidato dal fratello Francesco, cui occorre un incidente, che coinvolge Mele. I danni cagionati dal Vinci saranno pagati dal padre di quest'ultimo, Palmerio”.  Quanto al secondo, in cui Mele si ruppe una gamba e ottenne per questo il risarcimento da parte dell’assicurazione, sarebbe anch’esso stato cagionato da Francesco (Al di là di ogni ragionevole dubbio pag. 21; Rotella, 4.9). Mele accusa Salvatore di essere geloso e di aver più volte minacciato la Locci di ammazzarla se fosse andata con altri uomini; Barbara aveva paura del Vinci e confessava al marito di temere di poter essere, un giorno o l’altro, ammazzata [NOTA: per questo aspetto, si confrontino le parole della Locci  riferite da Giuseppe Barranca, sentito come teste al processo di I grado: “Ci potrebbero sparare mentre siamo in macchina”].  Spiega poi il movente vero di Salvatore, che nulla avrebbe a che fare con la gelosia e che riportiamo, per brevità, da Rotella : “Successivamente [Salvatore]avrebbe ottenuto, sia da lui che da sua moglie, un paio di prestiti, di circa 150.000 lire ognuno. Richiesto di restituirli, e non potendo, Salvatore gli avrebbe detto di volergli uccidere sua moglie, vistocché lui non era in grado di farlo, e sarebbero andati in pari. Mele afferma di aver risposto che non ne sarebbe stato contento, pur essendosi la moglie comportata male. Ma l'altro, attribuendogli di non farlo per mancanza di coraggio, avrebbe ribadito di volerlo fare lui stesso. Per avvalorare la credibilità delle sue accuse, aggiunge che il Vinci gli aveva anche raccontato di aver ucciso in Sardegna la sua stessa moglie, lasciando aperta una bombola del gas, e salvando suo figlio.” Aggiungiamo che, per dare forza al sospetto, Mele racconta che più volte, nel periodo di convivenza, Salvatore aveva tentato di ucciderlo lasciando il gas aperto; un particolare così poco credibile da alimentare probabilmente lo scetticismo negli investigatori.

Prima di continuare, notiamo solo che il giorno precedente Mele aveva attribuito gelosia e minacce a Francesco e non a Salvatore; e che dei presunti prestiti ricevuti da quest’ultimo non si troverà traccia documentale, anzi, Salvatore risulterà creditore di 65.000 lire per una cambiale non onorata. Si tratta di storie narrate in maniera contorta dai protagonisti, ma che riguardano, in sostanza, piccole somme. Più interessante il fatto che il Mele accusi Salvatore di essersi installato a casa sua durante la sua degenza in ospedale dopo l’incidente; ma in seguito accuserà di questo Francesco e l’istruttoria condotta da Rotella lo confermerà.

Questo verbale viene chiuso alle ore 11.35; ma il Mele non viene rilasciato e l’interrogatorio continua fuori verbale e sempre, a quanto pare, con l’assistenza di Mucciarini. Al processo, il maresciallo Ferrero dirà che “alla confessione si giunse attraverso l’opera di persuasione fatta da un cognato del Mele, Piero Mucciarini”; ma in realtà il pomeriggio del 23 è uno spazio grigio (e Ferrero non è tra i firmatari del verbale di confessione). 
Rotella lo riempie in questo modo:

“[Gli inquirenti] intuiscono che Mele è implicato nell'omicidio più di quanto abbiano supposto.

Insistono nell'inquisirlo (fuori verbale e con l'ausilio di Mucciarini), ma è difficile stabilire in qual misura lo stimino ancora un teste o già un indiziato. (…) In ogni caso l'enormità delle dichiarazioni, che Mele appare pronto a riversare, li preoccupa che successivamente non le ritratti, facendole apparire per estorte. (…) Tanto si desume già dalle dichiarazioni di uno degl'investigatori al G.I., nel 1969 (cfr.: fasc. testi) brig. Matassino, che è colui che ha steso il rapporto di P.G.. Ed è stato confermato da Funari ed altri in questa istruttoria. Per questa ragione hanno coinvolto anche Mucciarini, apparso disponibile ad adoprarsi a questo fine (cfr.: Ferrero in corte d'Assise).

Finalmente Mele confessa di esser lui stesso l'assassino, aiutato da Salvatore Vinci, che lo ha accompagnato sul luogo e gli ha fornito l'arma del delitto. Gl'inquirenti non verbalizzano subito. Mucciarini non è oltre disponibile, perché deve dormire e poi recarsi al suo lavoro notturno di fornaio. Hanno bisogno essi stessi di credere e perciò conducono Mele sul luogo del delitto e si fanno rappresentare da lui i fatti, come narreranno nel rapporto.”

Se le cose stanno così, Mucciarini è presente fino alla confessione di Mele di aver agito in prima persona, su istigazione e con la complicità di Salvatore Vinci; poi si allontana. Non c'è un orario preciso, ma il successivo capitolo della vicenda, il sopralluogo, si svolge nel tardo pomeriggio (ore 18.30, secondo l’articolista della Nazione), quando Mele ha naturalmente già confessato, ma le sue dichiarazioni non sono ancora state verbalizzate. Lo svolgimento del sopralluogo è narrato in Matassino, con qualche discordanza rispetto al secondo verbale di Mele, redatto, dopo il sopralluogo, alle ore 21. E’ in questo verbale che compaiono i particolari che decideranno la colpevolezza del Mele agli occhi degli inquirenti e, a processo, dei giudici:

  • la ricomposizione dei cadaveri;
  • lo spostamento della scarpa del Lo Bianco;
  • l’accensione accidentale della luce di direzione;
  • la descrizione della pistola come una pistola da tiro a segno a canna lunga;
  • infine, il numero di colpi sparati, ossia otto, quanti contenuti, a detta del Vinci, nel caricatore;
  • successivamente, evidentemente a domanda, la sorte della pistola, gettata sul posto nelle vicinanze dell’auto.

Verbale di confessione di Stefano Mele, 23 agosto 1968 (grazie a Flanz Vinci per avermelo cortesemente fornito)

Quanto al figlio, che sarebbe placidamente addormentato sotto la gragnuola di colpi [Nota: due bossoli vengono ritrovati, come abbiamo visto, tra il sedile posteriore e la spalliera, proprio dove doveva essere disteso Natalino], Mele racconta: “A questo punto il figlio si sveglia e lo chiama: "babbo". Non dice altro o lui non lo sente, perché scappa. È da notare che nel verbale, f. 25 atti gen., subito dopo "Non aggiunse altra parola" e prima di "o se lo fece non ebbi modo di sentire", è cancellata, con 'x' sovrapposta, la frase "perché aprì lo sportello posteriore destro ed uscì dalla macchina. Sul bambino, Mele non torna oltre,(…)” (Rotella 2.4); si tratta di una correzione che forse indica un tentativo di armonizzazione di versioni contrastanti da parte degli inquirenti. In sostanza, però, Mele afferma di non sapere cosa abbia fatto il figlio dopo la commissione del delitto, non c’è parola di accompagnamento. 



Mele viene fermato e portato in carcere; la lunga giornata di convulse indagini si chiude dunque con Stefano Mele reo confesso e Salvatore Vinci chiamato in correità
Nella notte viene testata la confessione del Mele interrogando Salvatore Vinci e subito dopo Nicola Antenucci, suo compagno nella partita di biliardo che ne costituisce l’alibi. Non abbiamo i verbali di interrogatorio e dobbiamo reperire i dettagli nel Rapporto Torrisi del 1986: “Alle ore 01,20, VINCI Salvatore, sentito in merito alle accuse mossegli poco prima dal  MELE,  nel  negare ogni addebito, sostiene che la sera di quel  mercoledì 21.8.68,  uscito di casa, sita in località "La Briglia " di Vaiano, verso  le ore 20,30, si  è intrattenuto presso il locale bar Sport, sino alle ore 22,15, in compagnia di VARGIU Silvano e di un certo Nicola (ANTENUCCI) suo dipendente, di essersi recati successivamente con i  due amici a Prato, presso il Circolo dei preti, ove sarebbero rimasti a giocare fino alle ore 24, facendo rientro a casa. Egli conclude affermando di aver saputo dell'omicidio il mattino del giorno successivo [Nota: si deve intendere, il 23 agosto, giacché il delitto avviene nella notte tra mercoledì 21 e giovedì 22], perché un suo operaio aveva il giornale e lo stava leggendo. Il  24  agosto  1968,  alle  ore  02,00,  a  meno  di  un'ora  dall'interrogatorio  del  suddetto, ANTENUCCI  Nicola,  sentito  in  merito,  conferma  la  circostanza  richiamata  dall'altro, precisando che dalle ore 22:15 alle ore 00,30, ora in cui si erano divisi, prima di dirigersi a casa,  il  VINCI Salvatore  non si  è  allontanato  da lui” [Nota: a quanto pare, e non si capisce perché, l’altro partecipante alla partita di biliardo, Silvano Vargiu, verrà sentito solo nel maggio del 1969].

La mattina successiva, Mele è innanzi al magistrato che ne ha disposto l’arresto; a quanto pare, non vi è un vero e proprio interrogatorio, ma una semplice conferma di quanto ammesso la sera prima, con l’unica differenza di aver restituito la pistola a Salvatore; del resto, gli sarà stato fatto presente che l’arma, pur cercata dove aveva detto di averla gettata, non era stata trovata, quindi questo elemento nuovo ha il sapore di un adeguamento forzato alle risultanze delle indagini.  Salvatore, però, ha un alibi, dichiarato nell’interrogatorio notturno e confermato da un testimone. Caponnetto convoca quindi Salvatore Vinci, che conferma quanto già detto ai carabinieri nella notte, e poi Nicola Antenucci. Nel corso di quest’ultimo interrogatorio (ore 16.50 del 24 agosto) si verifica un curioso qui pro quo, per cui vale la pena di riportarlo integralmente, per l’importanza che avrà nelle indagini del 1985-86:

Martedì scorso, di sera, mi sono incontrato con il Salvatore Vinci al bar Sport della Briglia, insieme al quale Salvatore vi era un suo amico che non conosco. Ci intrattenemmo nel locale dalle 21:30 alle 22:15 circa; dopo di ciò, su proposta dell'amico del Salvatore, andammo a giocare al biliardo al circolo Acli di Prato. Ne ripartimmo con l'auto del Vinci e giungemmo alla Briglia verso le 0:30.

Chiesto di nuovo al teste in quale giorno della settimana si sia svolto quanto sopra riferito, egli ripete: "non sono in grado di precisare sul momento la data, però ricordo e ripeto che era martedì sera. Infatti la sera precedente, che era il lunedì sera, eravamo andati a giocare a biliardo a Prato nello stesso circolo che ho menzionato prima, io, Salvatore e un nostro compagno di lavoro. La sera successiva, cioè il martedì sera, quel nostro compagno di lavoro si sentiva male, e venne allora un amico di Salvatore, oltre a quest’ultimo, e ci trovammo, come ho detto prima, al bar Sport della Briglia, verso le 21:15 – 21:20”.

Invitato il teste, onde controllare l’esattezza dei suoi interessi temporali, a precisare in qual modo abbia trascorso le sere successive, il teste riferisce soltanto di due serate, dimostrandosi sorpreso nell’apprendere che oggi è sabato è convinto che fosse invece venerdì. Invitato quindi il teste a riordinare meglio i propri ricordi, dichiara: “io posso dire soltanto che ieri mattina (e ripeto che ero convinto che fosse giovedì mattina) un compagno di lavoro, un certo Saverio, mi informò che era stato commesso un delitto a Lastra a Signa, cosa che io ignoravo perché non avevo letto i giornali di questa settimana. Questo Saverio mi disse anche che il delitto era stato commesso due notti prima. Quando poi (illeggibile) alla sera i carabinieri vennero a prendere Salvatore, io ricollegai che la sera del delitto era proprio quella in cui io, Salvatore e il suo amico Silvano eravamo rimasti insieme fin oltre la mezzanotte. Può darsi benissimo che come la S. V. adesso mi contesta, si trattasse di mercoledì 21. Anzi, ora me ne ricordo perché l’indomani giovedì avrei dovuto rientrare a lavorare presso il carbonificio Scaramelli, cosa che poi non feci”.

La testimonianza Antenucci è terribilmente ambigua, come tutto quanto riguarda, in questa vicenda, la figura di Salvatore Vinci. Rimaniamo col dubbio se la partita a biliardo si sia svolta il martedì o il mercoledì e potremmo chiederci per quale mai ragione un bravo P.M. come Caponnetto non solo non abbia sentito la necessità di approfondire l’argomento, ma abbia lui stesso condotto per mano  il teste a riconoscere il presunto errore di data e a confermare così l’alibi dell’amico Salvatore.
 
La Nazione 25 agosto 1968

C’è un motivo. In realtà abbiamo saltato un passaggio fondamentale. Mele, interrogato alle 9.50 di quella mattina aveva confermato tutto, tranne la sorte della pistola. Alle 14.30 viene però interrogato nuovamente, poiché, nell’interrogatorio notturno, Salvatore ha avanzato un alibi che sembra confermato. Cediamo qui la parola alla cronologia curata da Francesco Cappelletti nel volume “Al di là di ogni ragionevole dubbio": “Alle 14:30 Stefano Mele, dinanzi al magistrato, ascoltò quando dichiarato da Salvatore Vinci circa la sua estraneità al duplice omicidio, rimase per alcuni istanti assorto come a valutare la situazione, poi di fronte alle istanze mossigli rispose: “La verità è che io quella sera ero con Francesco Vinci, non ho fatto il suo nome perché avevo paura. [...] Egli teneva la pistola nel portattrezzi della sua Lambretta, chiuso con un lucchetto. [...] All’uscita dal cinema i tre stettero un po’ fermi in macchina per mettersi a posto e poi si avviarono verso Castelletti. Io e Francesco li seguimmo a una certa distanza col motorino di lui. La macchina si infilò nella stradina, aspettammo alcuni minuti e poi ci inoltrammo camminando lentamente e cercando di non far rumore. (…) Quando Francesco cominciò a sparare io ero ancora a una decina di metri da lui. (..) Mentre Francesco rimetteva a posto i due corpi mio figlio si svegliò e chiamò: ‘Babbo!’ Colto da un profondo senso di vergogna e di colpa scappai.(…) Dopo un paio di chilometri di strada fatta a piedi mi sono visto raggiungere da Francesco in motorino, egli mi disse che aveva portato il ragazzo presso una casa di contadini” [Nota: Natalino sarebbe stato quindi accompagnato da Francesco, magari in motorino per abbreviare i tempi; ma sappiamo già, facendo un piccolo salto nel futuro, che Natalino non parlerà mai né di Francesco né di aver viaggiato sul motorino, anzi è certo che conosce e ha materialmente percorso, a piedi, la stradina campestre che conduce a casa De Felice].

E’ il caso di mettere un ordine, logico e cronologico, a questa ridda di dichiarazioni contrastanti. Di prima mattina, Mele ha confermato la partecipazione di Salvatore; ma non appena gli viene detto che Salvatore ha un alibi (ossia, la partita a biliardo con Antenucci e Silvano Vargiu), abbandona spontaneamente questa versione e accusa, questa volta non semplicemente come istigatore, ma come assassino, Francesco Vinci. E’ solo dopo la sua nuova e diversa confessione che ha luogo l’interrogatorio di Salvatore  (ore 16, orario indicato da Torrisi, che specifica: “dopo che Mele Stefano ha ritrattato l’accusa e ha fatto il nome dell’altro fratello Vinci Francesco”); e successivamente di Antenucci (ore 16.50) da parte di Caponnetto, in un momento quindi in cui i sospetti addensatisi sul capo di Salvatore si sono quasi del tutto diradati, perché l’accusatore ha ritrattato. E’ nel bel mezzo di questo interrogatorio delle ore 16 che avviene il confronto tra Stefano e Salvatore, nel corso del quale Mele si sarebbe buttato alle ginocchia di Salvatore chiedendogli perdono piangendo per averlo falsamente accusato.

Nel frattempo, mentre Mele, in carcere a Firenze, è a confronto con Salvatore, a Signa il maresciallo Ferrero sta conducendo il ben noto esperimento giudiziario con Natalino, ripercorrendo, prima in auto, poi forzatamente a piedi, la strada presumibilmente percorsa dal bimbo la notte dell’omicidio. A quell’ora, Ferrero certamente sa della confessione di Mele del giorno prima, ma non del cambio di versione, che attribuisce l’accompagnamento a Francesco Vinci. Non si stupisce più di tanto, quindi, quando, sotto sua – moderata – pressione, il piccolo confessa di essere stato portato a cavalluccio dal padre per una buona parte della strada. [ Nota: Natalino indica un punto preciso che nel libro ho definito “secondo ponte”, dal quale da una parte è visibile in lontananza, alla fine del rettilineo, casa De Felice, dall’altra si incrocia la strada rotabile in terra battuta che, partendo da Sant'Angelo a Lecore, porta ai Colli Bassi di Signa. Rotella sbaglia, a mio parere, dicendo che Natalino avrebbe percorso da solo non più di un centinaio di metri; il tratto è molto più lungo ed è questa la ragione per cui lo stato dei calzini,  descritti dai primi testimoni come impolverati e logori, non è dirimente].  


In serata, sentito da Caponnetto, Natalino dà una versione leggermente diversa: “Il bambino riferisce più volte che, quando si svegliò in macchina, vide suo padre seduto vicino a lui sul lato sinistro del sedile posteriore… suo padre lo fece uscire dalla macchina dallo sportello posteriore destro e poi lo prese per mano, accompagnandolo fin presso la casa dove poi da solo il bimbo suonò… per buona parte della strada lo portò a cavalluccio…" (Rotella) [Nota: purtroppo conosciamo solo la prima pagina di questo verbale, pubblicata sul blog di Antonio Segnini. Sembra che in questo racconto Stefano abbia accompagnato il figlio fino alla casa, sarebbe quindi scomparsa la menzione del ponticino e del padre che torna indietro anzitempo; ma non possiamo averne la certezza]. Interrogato ulteriormente, alle ore 20, circa la versione data da Natalino, Mele è pronto a smentirsi e a confermarla, sostenendo anzi di averla già resa ai CC in corso di sopralluogo; ma in verità, era stato verbalizzato il contrario e quella stessa mattina aveva detto che era stato Francesco Vinci ad accompagnare il bambino, cosa che ora esplicitamente smentisce: “lasciato il ragazzo passai attraverso i campi fino a casa. Non è vero cioè che io abbia incontrato il Francesco” (da: “Al di là ecc.” pag. 16).   

La domenica 25 agosto passa, a quanto pare, senza ulteriori novità, con Mele e Vinci in carcere, il primo arrestato per duplice omicidio, l’altro in stato di fermo come sospetto complice o autore materiale.

Lunedì 26 le indagini riprendono, con un nuovo interrogatorio di Mele nel tardo pomeriggio, che conferma l’accusa a Francesco Vinci, fino a che “ad  un  certo  momento  il  magistrato  fa  presente  all'imputato  che  il  guanto  di paraffina,  già  prelevato a 16 ore  dal fatto, a lui stesso, a CUTRONA Carmelo e VINCI  Francesco, dà esito positivo solo per i  primi due,  per cui gli viene chiesto se egli si senta disposto a procedere al confronto con VINCI Francesco. Egli,  dopo aver indugiato in un prolungato silenzio, sbotta all'improvviso: "non c'è bisogno del confronto con Francesco. Se gli accertamenti sono come dite voi, vuol dire che è stato CUTRONA. I fatti si sono svolti  così come ho riferito nella mia ultima versione, solo che al posto di VINCI Francesco ci va messo CUTRONA" (Torrisi). Nella stessa serata o in nottata viene organizzato un confronto tra Mele e Cutrona. Non abbiamo il verbale, ma ampi stralci della trascrizione sono stati pubblicati nel recente volume di Davide Cannella “Winchester Calibro 22 Serie H”. Ci permettiamo di riproporli parzialmente qui perché molto indicativi dello stato mentale del Mele in quei giorni (e forse sempre).

Mele: Ricordati che quella sera sei venuto a casa.

Cutrona: Quando tu stavi male?

Mele: Di cosa hai parlato con mia moglie quando sei rimasto solo con lei, cosa avevi parlato?

Cutrona: Di te.

Mele: Non hai detto di uscire la sera?

Cutrona: Mai!

Mele: Se sei andato molte volte con mia moglie come tutti gli altri!

Cutrona: Mai, mai.

Mele: Io ti ho chiesto perché avevi fatto festa. Tu mi dicesti che ti aveva fatto male la macchina.

Cutrona: Io ti ho detto che mi aveva fatto male la testa e dovevo andare all’agenzia per fare le volture. Sì, è vero che ti parlai della macchina che mi aveva comprato mio padre. (…)

Mele: A che ora sei ripassato la sera?

Cutrona: Io non sono ripassato. Tu sei ubriaco. Io quando sono tornato sono andato a Lastra Signa con mio zio. Poi sono andato al cinema, poi al bar e poi a casa.

Mele: Dove siamo andati?

Cutrona: Io con te non sono andato in nessun posto. Tu sei pazzo.

Mele: Sì, sei venuto. Dove siamo andati? Dov'era mia moglie?

Cutrona: Tu sei pazzo. Io con te non sono venuto.

Mele: Tu l'hai ammazzata.

Cutrona: Sei pazzo. Sei pazzo. Fatti mandare al manicomio! (…)

Mele: Mia moglie è uscita tante volte con te.

Cutrona: Io con tua moglie non ci sono mai stato.

Mele: Ci conosciamo da quando ero a Casellina.

Cutrona: Tu sei pazzo. Accusi le persone come niente.

Mele: Noi lasciammo quella sera la Lambretta vicino al cimitero.

Cutrona: Io con te non sono mai venuto in nessun posto.

Mele: Tu lo hai fatto per gelosia.

Cutrona: Per gelosia verso tua moglie? Ma tu sei pazzo.

Mele: Che strada abbiamo fatto quella sera?

Cutrona: Io con te non ho fatto nessuna strada.

Mele: Quella strada l'abbiamo fatta tante volte. Quale macchina hai visto quella sera. Che targa aveva?

Cutrona: Io non ho visto nessuna macchina. Io con te non c'ero.

Mele: C'eri. C'eri.

Cutrona: Io con te non c'ero!

Mele: C'eri. Abbiamo aspettato un po' per farli fuori. La prima idea di ammazzarli l'hai avuta tu. Dopo hai tirato fuori dalla Lambretta la pistola. Eravate tutti voi che la volevate fare fuori. Un ganzo pedinava un altro ganzo. Dì la verità. Ormai lei è morta. Ti sei dato da fare con lei come tutti gli altri.

Cutrona. Io con tua moglie non ho mai avuto a che fare.

Mele: Dopo che li hai ammazzati sei scappato. (…) Dì la verità.

Cutrona: Che verità?

Mele: La verità di quella sera di ciò che abbiamo fatto assieme.

Cutrona. Io con te non ho mai avuto a che fare.

Mele. Sì, ci sei stato, e si è fatto. Si è fatto e fatto bene.

Cutrona: Tu devi dire quello che hai fatto.

Mele: No. Quello che abbiamo fatto assieme.

(…)

Cutrona: Io niente sapevo e niente so ora.

Mele: Quando quella sera è successo quello che è successo, tu prendesti la Lambretta e te la filasti.

A domanda del P.M: Mele: Non mi ricordo di che colore era la Lambretta.

A domanda del P.M: Mele: Questo è l'uomo giusto, senza dubbi. È vero che diverse volte, nei precedenti verbali avevo dichiarato di essere disposto a sostenere il confronto con Vinci Francesco quando io accusavo costui, ma sono convinto che poi me ne sarebbe mancato il coraggio, perché Francesco non c'entra ed è innocente. Invece come la S.V. ha potuto notare, non mi è mancato il coraggio di sostenere il confronto con il Cutrona e di parlargli sempre guardandolo negli occhi.

A questo punto, anche il PM Caponnetto, comprensibilmente confuso dalla girandola di versioni contrastanti, si convince che nella testa di Mele qualcosa non va (chiederà infatti l’esecuzione di una perizia psichiatrica), che sta accusando, in successione, gli amanti della moglie per spirito di vendetta; e Cutrona viene rilasciato senza conseguenze. 
 
La Nazione 28 agosto 1968

Le indagini continuano, non più alla ricerca del colpevole, ma di un eventuale complice e dell’arma del delitto; ma, come sappiamo, non avranno successo.

Mette conto concludere il racconto di questi primissimi giorni di indagini sul delitto di Signa, trascrivendo, dal solito “Al di là ecc.” il risultato della perizia psichiatrica: “L’indagine psichiatrica arricchita dai risultati dei test psicologici ha dimostrato che il Mele è un soggetto dallo sviluppo mentale indubbiamente al di sotto della media normale. (…) La insufficienza mentale del periziando è apparsa chiaramente nei diversi colloqui, in particolare dalla ingenuità estrema della sua posizione difensiva rispetto alla sua imputazione, dalle frequenti contraddizioni nelle quali egli è caduto, dalla estrema scarsità di nozioni elementari delle quali è in possesso. (…)  Nel momento in cui commise il fatto del quale è imputato, il Mele Stefano si trovava in stato di infermità mentale tale da scemare grandemente la sua capacità di intendere e di volere essendo affetto da oligofrenia di medio grado con caratteropatia.” [Nota: il termine “caratteropatia” è oggi sostituito dalla definizione di “disturbo della personalità”. Quanto alla oligofrenia dei testimoni, ricorrente nel caso del Mostro di Firenze, ne abbiamo già parlato nel caso di Fernando Pucci, si veda qui:  http://mostrodifirenzevolumei.blogspot.com/2017/07/il-teste-alfa-6.html ]

Sarebbe ora il momento di trarre, se possibile, qualche conclusione dal resoconto degli avvenimenti, che ho voluto narrare con ogni dettaglio oggi disponibile, raccogliendo informazioni già note e anche parzialmente inedite. Ma poiché l’articolo è già sufficientemente lungo e tener conto delle giravolte dialettiche del Mele non è così semplice, preferisco rimandare di qualche giorno la quarta – e, prometto, veramente ultima parte. Sperando anche di avere nel frattempo qualche osservazione, parere, spunto di riflessione dai miei quattro lettori.

[SEGUE]