domenica 24 novembre 2019

Al cimitero di Signa


Nel suo pregevole volume “Storia delle Merende Infami” l’avvocato Filastò scrive più volte che il delitto di Signa avvenne “accanto al cimitero”, “dietro il cimitero” e qualifica addirittura il delitto come “i delitti al cimitero di Signa” (pag. 145); confonde poi il cimitero di Lastra a Signa con quello di Signa, a proposito della testimonianza Barranca (pag. 161). E’ un errore che si perpetua da tempo, ripercuotendosi da autore ad autore. 
 
Il cimitero di Signa  - San Miniato è in discesa, da sud a nord. L'ala più a nord (a sinistra nella foto) dovrebbe essere un ampliamento risalente agli anni Ottanta.
La prima citazione del Cimitero di Signa come elemento significativo nel delitto Locci – Lo Bianco compare già nella notte stessa del duplice omicidio. Il carabiniere Giacomini dice infatti al Giudice Istruttore Alessandri:  “Strada facendo in automobile il ragazzo disse che era stato al cinema con la madre e con lo zio e poi era andato in automobile con loro, e ricordava di essere passato vicino al cimitero. Non dava altre spiegazioni” (Verbale del 7 ottobre 1968).  Quindi è avendo come riferimento il cimitero, ossia passandoci davanti percorrendo via di Castelletti, su indicazione del bambino, che i carabinieri rintracciano l’auto, certo aiutati dalla luce di direzione lampeggiante.  Come ho già scritto in un precedente articolo, dal cimitero di Signa (San Miniato) all’incrocio con la stradina dove avvenne il delitto corrono più di 1.300 metri, quindi che il delitto sia avvenuto vicino al cimitero è termine relativo da prendere cum grano salis, in quanto il cimitero serve più che altro come punto di riferimento stradale nella ricerca. 

 
La facciata del cimitero, all'incrocio tra via di Castelletti e via Sorelle Gramatica

Carta IGM 1:50.000, su cartografia del 1963. Si vede il cimitero, a sinistra del numero 110 e più in alto a sinistra Villa Castelletti e la stradina lungo il Vingone


Infatti il 23 pomeriggio i carabinieri, nel portare il Mele a fare il sopralluogo, dopo aver raccolto, ma non ancora verbalizzato, la sua confessione, avendo constatato che dalla piazza del cinema il reo confesso non sa orizzontarsi, lo portano fino al cimitero; dal quale lui poi procede  a localizzare la scena del crimine. 
A verbale, quella sera, Mele riassume così: “Enrico (…) dopo aver percorso circa tre chilometri ed essere passato avanti al cimitero di Signa proseguì per la strada dritta che fiancheggia il cimitero e dopo poche centinaia di metri svoltò in una strada bianca posta sempre sulla destra fermandosi a circa cento metri dal bivio. (…) Una volta che Salvatore si accorse che Enrico aveva girato, fermò la macchina tra il cimitero e una casa colonica posta quasi vicino al bivio”. Questa versione, tra tante improbabilità, ha il merito di essere più o meno coerente con la geografia e la viabilità: infatti “Enrico” passa davanti al cimitero (il termine fiancheggia è impreciso), prosegue diritto e svolta a destra; Salvatore posteggia l'auto vicino a una casa colonica posta prima del bivio. Si tratta, con grande probabilità della casa che si vede in alcune foto d’epoca  e che si può apprezzare anche con Google earth




Il giorno dopo, nel passare l’accusa da Salvatore a Francesco, Mele è già meno preciso sui luoghi. Ne approfitto a questo punto per trascrivere i verbali di Mele del 24 agosto, che mi sono stati gentilmente forniti da Flanz Vinci di Insufficienza di prove e che comparivano solo per excerpta nel volume “Al di là di ogni ragionevole dubbio” (Cochi – Bruno – Cappelletti).

Interrogatorio ore 14.30
Procura della Repubblica di Firenze
L’anno 1968 il giorno 24 del mese di agosto ad ore 14:30 in Firenze, carceri delle Murate
avanti di noi dottor Antonino Caponnetto procuratore della Repubblica di Firenze assistiti dal sottoscritto segretario è comparso l’imputato sotto indicato il quale viene da noi invitato a dichiarare le proprie generalità ammonendolo delle conseguenze cui si espone chi si rifiuta di darle o l’età false.
L’imputato risponde:
Sono e mi chiamo Mele Stefano, già qualificato. Vengo informato delle dichiarazioni rese poco fa da VINCI Salvatore, e invitato ancora una volta a dichiarare la verità nell’interesse superiore della giustizia.
Si dà atto che l’imputato rimane per alcuni istanti assorto e pensieroso; a nuove sollecitazioni infine risponde: 
“La verità è che quella sera io ero con Francesco Vinci. Non ho fatto prima il nome del Vinci Francesco poiché ne avevo paura. Quando ci lasciammo quella notte dopo il delitto, Francesco mi disse: “fa il nome di chi ti pare, ma non il mio”. Un po’ per queste parole di Francesco, un po’ perché nella mattinata di ieri [cancellato nel verbale] avevo avuto per casa il Salvatore, per tanto tempo, un po’ perché anche con lui avevo avuto qualche discussione e anche lui era stato amante di mia moglie, mi decisi ieri sera, nel corso dell’interrogatorio messo a verbale, di fare il suo nome come istigatore e complice. Ma il Salvatore per la verità non c’entra.
Negli ultimi tempi avevo più volte parlato con Francesco della possibilità di “far fuori” mia moglie e l’uomo che avessimo scoperto assieme a lei; a tale scopo avremmo usato l’arma di cui Francesco era in possesso. Sapevo fin dal novembre scorso, anzi sapevo già ancor prima che Francesco entrasse in carcere, che egli aveva una pistola. Egli mi disse che la teneva nascosta in casa sua in un posto che non sapeva neanche sua moglie; però in precedenza, e cioè prima che entrasse in carcere, egli la teneva nel porta-attrezzi della lambretta chiuso con un lucchetto, sempre per quel che Francesco mi diceva. La sera del 21, dopo che mia moglie se ne andò al cinema con Lo Bianco e col ragazzo, cominciai a rimuginare nella mente l’idea di ucciderla. Conoscendo le abitudini di Francesco andai ad attenderlo all’uscita del bar in via IV novembre a Lastra a Signa di fronte alla farmacia. Francesco uscì in strada fra le 23:30 e le 23:45 e mi chiese subito dov’era Barbara; io gli risposi che “era andata fuori con un altro”, senza fare il nome di nessuno. Francesco si limitò ad invitarmi a salire sul suo motorino e si diresse verso Calcinaia, lasciandomi lungo la salita prima del paese ad attenderlo sulla strada mentre egli proseguiva in motorino verso l’abitato. Egli ritornò dopo 10 – 15 minuti. 

La strada in salita che da Lastra a Signa porta alla località Calcinaia, dove abitava Francesco Vinci

Non mi disse dove era stato, né cosa aveva fatto (solo successivamente egli mi disse che era andato a prendere l’arma, senza precisare dove) e mi fece subito risalire dicendomi così: “andiamo a Signa”. A dimostrazione del fatto che il Francesco pensava già da tanto tempo ad uccidere mia moglie, preciso che più volte egli aveva seguito mia moglie nei suoi appuntamenti con altri uomini e ciò mi era stato riferito da mia moglie e può essere confermato anche da Salvatore. Appena giunti a Signa quella notte passammo prima dal cinema Centrale [Nota: leggo in wikipedia che il cinema Centrale, poi demolito, si trovava nell'attuale piazza Ugo Pratelli] all’esterno del quale però non c’era alcuna macchina con le caratteristiche di quella di Enrico (io non avevo fatto a Francesco il nome del Lo Bianco ma gli avevo descritto le caratteristiche della sua macchina) e proseguimmo verso il cinema all’aperto nei cui pressi avvistammo la macchina di Enrico. Aspettammo una mezza oretta che uscissero i tre dal cinema: nell’attesa non scambiammo molte parole ma comunque ognuno dei due conosceva bene i pensieri e le intenzioni dell’altro. Ricordo che ad un certo momento chiesi a Francesco: “ed ora che si fa?” ed egli mi rispose: “ci penso io”, con tono deciso. Sul significato di queste parole io non ebbi alcun dubbio. All’uscita del cinema i tre stettero un po’ fermi in macchina per mettersi a posto e poi si avviarono verso Signa [cancellato nel verbale] Castelletti. Io e Francesco li seguivamo a una certa distanza col motorino di lui.
Quando poi la macchina del Lo Bianco si infilò nella stradina dove poi avvenne il delitto Francesco arrestò il motorino sotto il cimitero. Aspettammo alcuni minuti e poi ci inoltrammo anche noi nella stessa stradina camminando lentamente e cercando di non far rumore. Per primo si avviò Francesco ed io lo seguivo ad una decina di metri. Quando Francesco cominciò a sparare io ero ancora ad una decina di metri da lui. Lo vidi far fuoco attraverso il finestrino posteriore sinistro che aveva il vetro abbassato. Io seguitai ad avvicinarmi e mi portai sul lato destro della macchina. Mi resi subito conto che i due erano stati uccisi sul colpo senza avere il tempo di abbozzare la minima reazione. Vidi Francesco tirare all’indietro per il vestito il corpo di mia moglie, che era riverso su quello dell’uomo, e sistemarlo sul sedile anteriore; indi egli sistemò il corpo dell’uomo mettendogli a posto i pantaloni e la gamba sinistra, dalla quale si sfilò la scarpa che andò a finire vicino allo sportello sinistro. Non mi ricordo che mia moglie avesse le mutandine abbassate e che le siano state tirate su. Mentre Francesco metteva a posto i due corpi mio figlio si svegliò e chiamò: “babbo”. Io colto da un profondo senso di vergogna e di colpa, anziché rispondere a mio figlio e prenderlo con me, scappai verso il motorino e mi avviai a piedi lungo la provinciale senza neanche preoccuparmi di aspettare Francesco col motorino, anche per il timore che persone mi vedessero. Dopo un paio di km di strada fatta a piedi mi sono visto raggiungere da Francesco con il motorino; egli mi disse che aveva preso il ragazzo e l’aveva portato, proseguendo sulla strada in cui avvenne il delitto, presso una casa di contadini. Mi disse Francesco: “il bambino non deve parlare”. Però sono sicuro che se l’interrogate a solo il bimbo vi dirà la verità. Se fosse necessario sono disposto ad incontrare il ragazzo nel luogo che riterrete più opportuno per esortarlo io stesso a dire la verità. Con Francesco ci lasciammo quella notte a Ponte a Signa; lo rividi l’indomani mattina presso la caserma dei carabinieri di Lastra a Signa. Questa che ho detto ora è proprio la verità.
 LC S firma
Si dà atto che a questo punto su richiesta dello stesso Mele viene introdotto Vinci Salvatore al quale il Mele, prorompendo in singhiozzi, chiede perdono per il male che può avergli arrecato.

Interrogatorio stessa data alle ore 21:15
Mi è stato notificato l’ordine di cattura emesso dalla S.V. per duplice omicidio premeditato.
Confermo il mio secondo interrogatorio, quello cioè in cui ho accusato, come di nuovo accuso, Vinci Francesco di avere premeditato con me, e poi materialmente eseguito in mia presenza, il duplice omicidio.
La S.V. mi fa presente che un paio di ore fa, prima che mi venisse permesso di riabbracciare e salutare mio figlio presso il Comando Carabinieri, il ragazzo ha rivelato che quella notte fui io a condurlo, un po’ per mano e un po’ a cavalluccio, fin nei pressi della casa colonica della quale poi il ragazzo suonò il campanello. È vero, è andata proprio così; però, per la verità, io l’avevo già dichiarato ai carabinieri durante il sopralluogo del giorno 23 pomeriggio. Lasciato il ragazzo, passai attraverso i campi, finché mi sono ritrovato sulla strada asfaltata vicino al cimitero. Ho proseguito a piedi fino a casa; non è vero, cioè, che io abbia incontrato il Francesco. Francesco si allontanò di corsa, e andò a riprendere il suo motorino, mentre io mi portavo accanto al ragazzo che si stava svegliando. Gli avevo detto di aspettarmi sulla strada, ma non lo rividi più. È vero che, come la S.V. mi riferisce essere stato detto dal ragazzo, io mi misi a sedere sul sedile posteriore dell’auto, accanto al ragazzo, poco prima che egli si svegliasse. Mi rendo conto che appaiono senza senso le diverse cose che io ho detto nel precedente interrogatorio sui punti or ora contestatimi: ma non avevo mai avuto a che fare con la giustizia e non sapevo come comportarmi.
LCS Firma

Il lettore attento e perspicace saprà distinguere da solo quanto può essere farina del sacco del Mele e quali invece sono risposte indotte dallo svolgimento dell’interrogatorio, come il clamoroso voltafaccia sull’accompagnamento del bambino. Altrettanto evidente è che Caponnetto non crede a Mele, ma naturalmente non può evitare di prendere atto della sua confessione ed emette ordine di cattura. L’inchiesta sarà poi condotta da altri magistrati.

Rimangono alcune osservazioni da fare.
Sulle minacce subite dalla Locci, come sappiamo, abbiamo la conferma indiretta della Locci stessa, tramite Giuseppe Barranca, in epoca vicinissima al delitto. Mele le attribuisce a Francesco, come il giorno prima le ha attribuite a Salvatore; se si potessero abbinare con certezza minacce e uomo in motorino, il candidato principale sarebbe Francesco, ma come scrissi già parecchi anni fa, la cosa non è affatto certa. Si è sempre fatto un gran parlare che Mele disse di essere stato portato sul posto da Francesco Vinci con la Lambretta, che invece era dal meccanico. Ma, come si vede, in questo interrogatorio Mele parla di motorino, farà in seguito confusione con la Lambretta dove, a suo dire, Francesco custodiva l’arma, svalutando quindi ulteriormente le sue dichiarazioni. Inoltre, se il giorno prima è stato abbastanza preciso (ma era appena stato portato sul posto), nel verbale del 24 sembra non abbia più idea delle distanze, giacché dice di aver visto, dal cimitero, l’auto del Lo Bianco svoltare nella stradina. L’idea del cimitero e della Lambretta gli rimane in testa, tanto che il giorno 26, nel confronto con Carmelo Cutrona, dirà:  “Noi lasciammo quella sera la Lambretta vicino al cimitero”.
Vista panoramica dei luoghi


Non aggiungo altro, perché continuo comunque a leggere commenti, anche bene informati, che dicono che Mele conosceva la scena del crimine, ha simulato perfettamente l’omicidio, sapeva il numero dei colpi prima degli inquirenti, la scarpa di Lo Bianco ecc., ignorando tutti gli altri indizi che ci dicono che sapeva poco o nulla di prima mano. Quindi tutto questo lavoro di ricostruzione cominciato nel 2012 è stato pressoché vano.

SALUTO
Con questo articolo, credo interessante soprattutto per la trascrizione dei verbali, mi congedo, spero temporaneamente, dai miei soliti quattro lettori, avendo ormai scritto tutto quello che avevo da dire, su Signa, su Lotti e molte altre cose.  Speravo di ottenere una consulenza da uno psicologo forense sui verbali di Natalino Mele del 1969, ma per ora non è stato fattibile; può darsi lo diventi in futuro.
E’ anche il momento di ringraziare chi nel corso di questi anni mi ha fornito i documenti e i necessari spunti di riflessione per la scrittura di questo blog. Li nomino in rigoroso ordine alfabetico:
Ale
Nicola Blasco
Bruchetto
Francesca Calamandrei
Francesco Cappelletti
Paolo Cochi
Claudio Ferri
Martin Rush
Antonio Segnini
Maurizio Sozio
Mi scuso con chi sto involontariamente dimenticando.

Un saluto e a risentirci, in attesa di novità.

FRANK / OMAR

giovedì 14 novembre 2019

Lotti e le assicurazioni (3)




Veniamo infine alla terza e ultima parte della saga che vede Lotti impegnato a difendere a tutti i costi la sua colpevolezza. Esaminiamo l’esito del processo di appello per quanto riguarda il FIAT 128  e le assicurazioni. Ho l’impressione che la sentenza di II grado sia poco conosciuta, quanto meno nelle sue motivazioni, quindi ho deciso di trascriverla nei passaggi che sono attinenti al tema di cui ci occupiamo, limitandomi a inserire dei commenti personali in forma di note tra parentesi. Ritengo che la lettura risulti istruttiva. Chi volesse leggere per intero, può scaricare il file sul blog di Antonio Segnini, qui). La nostra citazione comincia a pag. 175, con una ricostruzione di quanto avvenuto in I grado.

"Come si è detto in altra parte della presente sentenza, in sede di discussione davanti alla Corte di assise uno dei difensori comunicava a quel giudice di primo grado e ne forniva prova, che il Lotti, nel 1985, il 3 luglio e, quindi, 65 giorni prima del duplice delitto degli Scopeti, aveva comperato una Fiat 124 celeste o scura e che quindi molto probabilmente la sera dell'8 settembre non poteva con la vecchia Fiat 128 essersi condotto in località Scopeti ad assistere agli omicidi unitamente al suo amico Pucci Fernando.

La Corte di assise, interrotta la discussione, disponeva le opportune indagini e all'esito risultava per testimoni e per documenti:

che effettivamente il Lotti quell'anno, con scrittura privata autenticata il 3 luglio 1986 [rectius: 1985] ma trascritta nel novembre 1986 [?], aveva acquistato una Fiat 124 scura;

che la Fiat 128 rossa era stata demolita il 3 aprile 1986 (vedi il certificato del PRA in atti);

che era stato pagato il premio assicurativo per la Fiat 128 fino al 20 settembre 1985 e per la "nuova" Fiat 124 a decorrere da quella data del 20 settembre 1985;

che l'intermediario della vendita, un meccanico di San Casciano, non consegnava la macchina che era stato incaricato di vendere – nella specie la Fiat 124 – se la stessa non era regolarmente assicurata, giusta le dichiarazioni di costui.

Deduceva da ciò la Corte di assise che quindi il Lotti aveva sì comperato altra vettura – sempre usata – ma che non l'aveva utilizzata se non dal momento in cui l'aveva assicurata e, cioè, dal 20 settembre 1985.

E che quindi non vi era alcun motivo per dubitare che il Lotti Giancarlo l'8 settembre 1985, giorno del duplice omicidio degli Scopeti, si trovasse con la sua Fiat 128 rossa in quel posto.

(...) [Nota: omettiamo un breve excursus sulla testimonianza Ghiribelli e la famosa intercettazione sulla ben nota necessità fisiologica]

In questo grado di appello i difensori di Mario Vanni hanno proseguito, approfondendole personalmente e doverosamente, le loro ricerche, surrogandosi alla polizia di Stato e ponendo così rimedio alla superficialità dimostrata da questa ultima nel caso di specie [Nota: temevano di non trovarlo reo? Alessandro Manzoni,Storia della colonna infame, citato a processo dall'avvocato Mazzeo], sì da ottenere dall' agente di Firenze della compagnia assicuratrice del Lotti copia della polizza stipulata dal Lotti stesso per la Fiat 124 scura.

Polizza che è risultata stipulata addirittura il 25 maggio 1985 e, cioè, ben prima della data di autenticazione della scrittura di vendita – 3 luglio 1985 – poi trascritta al PRA.

Con ciò fornendosi dimostrazione che il Lotti molto verosimilmente aveva nella sua disponibilità la Fiat 124 almeno dal mese di maggio 1985 e che da allora l'aveva posta in circolazione tanto da assicurarla.

In sede di rinnovazione del dibattimento, come si è già detto, è emerso dalle dichiarazioni dell'agente attuale della compagnia assicuratrice e di quello dell'epoca che la polizza stipulata per la 124 Fiat andava a sostituire quella preesistente ed attinente la Fiat 128, che la Fiat 124 aveva cagionato due lievi incidenti stradali in Firenze nel giugno o luglio 1985 e che norma voleva che il tagliando assicurativo esposto sul parabrezza venisse restituito alla compagnia assicuratrice all'atto della nuova razza sulla nuova macchina ma che, almeno all'epoca, di fatto, spesso e volentieri, questa norma veniva assai poco rispettata tanto che non è stato rinvenuto il tagliando della Fiat 128 nella relativa pratica [Nota: questo “spesso e volentieri” è un’aggiunta dell’estensore della sentenza]. Il Lotti esaminato sul punto ha dichiarato di essersi ricordato che, di fatto, per qualche mese aveva utilizzato entrambe le automobili sfruttando la circostanza che non aveva restituito il tagliando alla compagnia assicuratrice e che anzi l'aveva sempre tenuto esposto sul parabrezza della sua Fiat 128. Confermava che agli Scopeti ci era andato con tale ultimo veicolo.

(...) [Segue in sentenza una ricostruzione, però molto approssimativa e incompleta, del modo in cui il FIAT 128 rosso di Lotti entrò di prepotenza nell’inchiesta. Chi volesse saperne di più veda invece qui]

Il Lotti Giancarlo comperò la Fiat 124 scura nello stesso anno 1985 qualche mese prima dei delitti degli Scopeti, certamente prima del 25 maggio il che significa che in quell'anno 1985 il detto Lotti possedette sicuramente, e per un certo periodo contemporaneamente, due veicoli: la 128 rossa e la 124 scura;

(...)

Così stando le cose vi è da chiedersi per quali ragioni mai il Lotti avrebbe dovuto consapevolmente mentire in pubblico dibattimento nel dire, contrariamente al vero, che l'8 settembre 1985 lui agli Scopeti ci era andato con la Fiat 128 rossa [Nota: è una domanda retorica; il giudice si guarda bene dal chiederselo]. Nulla infatti sarebbe cambiato se avesse detto che vi era andato con la Fiat 124 o con altro mezzo di locomozione, nessun interesse avendo egli a raccontare in maniera consapevole una bugia di tal fatta.

E anzi, nel ricordare che Lotti Giancarlo nel presente processo è un imputato che è stato condannato alla gravissima pena di 30 anni di reclusione, può agevolmente osservarsi che migliore difesa il Lotti forse non avrebbe potuto avere ove nella insistenza degli investigatori sul possesso da parte sua della Fiat 128 rossa avesse loro detto, se però se ne fosse ricordato, che lui all'epoca degli omicidi agli Scopeti non aveva alcuna macchina rossa avendola cambiata qualche mese prima con altra di foggia e colore diverso.

D'altro canto che il Lotti Giancarlo all'inizio delle investigazioni di polizia non sapesse proprio quale macchina mai avesse usato con il Pucci per recarsi agli Scopeti, è dimostrato dalla domanda da lui stesso fatta al Pucci in sede di confronto allorquando chiede al Pucci stesso se per caso agli Scopeti c'erano andati con la 128 rossa (vedi trascrizione della registrazione del verbale di confronto Pucci – Lotti dell'11 febbraio 1996).

Può dunque serenamente affermarsi, ad avviso di questa Corte, che il Lotti era perfettamente convinto di utilizzare in quel periodo la Fiat 128 rossa perché anche quando ne aveva avuto il dubbio era stato tranquillizzato: dalla polizia prima e dallo stesso Pucci in un secondo momento.

Considerando la persona, ignorante e rozza e il lungo tempo trascorso, 11 anni dai fatti, la circostanza che proprio gli ufficiali di polizia giudiziaria gli dicevano che aveva usato quella sera la 128 rossa, rende certi che il Lotti Giancarlo si convinse di questo e, quindi, disse che agli Scopeti c'era andato con quella macchina apparendo abbastanza normale, anzi normalissimo, che il medesimo si fosse dimenticato, nel febbraio del 1996, che nel 1985 aveva comperato altra vettura.

[Nota: a cosa serve questo lungo e contorto ragionamento del giudice? A giustificare la bugia del Lotti e riabilitarlo come collaboratore di giustizia veritiero, anche se smemorato. Come già abbiamo detto, se il chiamante in correità era falso, tutto il castello accusatorio doveva cadere. Ma al giudice sembra qui sfuggire la parte essenziale: se Lotti e Pucci si trovavano agli Scopeti con la 124 celeste, tutte le altre testimonianze, in primis Ghiribelli, ma anche Chiarappa – De Faveri, perdevano di significato: quei testi avevano visto un’auto rossa scodata, quindi Lotti mai e poi mai avrebbe potuto ammettere di essere lì con la 124 celeste, se si doveva – e necessariamente si doveva – riscontrare da terzi la chiamata in correità]

Il tutto poi a prescindere da una ulteriore considerazione che deve necessariamente farsi: il fatto che il Lotti neppure ricordasse di aver comprato qualche mese prima dei fatti un'altra vettura non significa assolutamente che il medesimo l'8 settembre 1985 non abbia usato la 128 rossa.

Tale auto era infatti nella sua piena disponibilità con tanto di tagliando assicurativo (illegittimamente) esposto sul parabrezza e il Lotti ha dichiarato davanti a questo giudice che le macchine le usava tutte e due: la qual cosa è pienamente credibile se si tiene presente che il tagliando esposto su un vetro della Fiat 128 indicava una scadenza del periodo assicurativo al 20 settembre 1985.

D'altro canto, come è stato ricordato da taluno dei difensori, il medesimo Lotti aveva già ripetutamente dichiarato in dibattimento davanti alla Corte di assise che non aveva avuto alcuna remora ad utilizzare fino al settembre 1985 entrambe le vetture, ivi compresa quella non assicurata. Così stando le cose appare evidente che l'unico problema discendente dalla questione sollevata dai difensori del Vanni e, cioè, quello attinente la credibilità del Lotti (e non già al mezzo con il quale costui si sarebbe recato agli Scopeti) può positivamente risolversi a favore di questo ultimo essendo più che credibile, per tutti i motivi esposti, che il Lotti Giancarlo almeno fino al 20 settembre 1985 utilizzasse entrambe le vetture di sua proprietà.

[Nota: contro ogni logica, Lotti diventa testimone di se stesso. Una cosa è credibile, per quanto sommamente improbabile, perché ipse dixit. Lotti è attendibile, nonostante le sue retromarce e costanti cambi di versione, per una qualche ragione metafisica che la sentenza non si attarda a spiegarci; l’espressione “per tutti i motivi esposti” resta infatti senza significato, non vi è alcun valido motivo per pensare che Lotti adoperasse contemporaneamente due auto se non la sua tardiva ammissione costretta dalle circostanze]

Circa le produzioni definite falsi riscontri necessita rilevare che il Lotti a mezzo del suo difensore ha prodotto semplicemente tre certificati di assicurazione tutti veri e reali come accertato anche dal consulente tecnico del prevenuto Vanni.

L'affermazione pertanto che i detti documenti sarebbero falsi e diretti a trarre in inganno il giudice appare del tutto gratuita e gravemente offensiva del prestigio e della dignità professionale del difensore di Lotti Giancarlo se si pensa che un certificato si attiene alla polizza attinente la Fiat 128, altro certificato la polizza stipulata per la Fiat 124 ed attiene il premio per il periodo settembre 1985 – marzo 1986 e il terzo certificato una polizza che successivamente andava a sostituire quella stipulata per la Fiat 124. Può dunque concludersi sul punto che nulla è in atti né alcunché è stato approvato che possa escludere che il Lotti la sera dell'8 settembre 1985 si sia portato alla piazzola degli Scopeti proprio con la Fiat 128, ove poté vedere bene quanto Pacciani e Vanni andavano facendo, unitamente al teste Pucci Fernando."

[Nota: che i certificati fulmineamente prodotti dall’avv. Bertini fossero autentici (leggasi: non materialmente falsi), nulla quaestio; che fossero fuorvianti e abbiano tratto in inganno il giudice di I grado è altrettanto palese. Ma la sentenza preferisce non approfondire i motivi e le modalità di questa produzione. Chi ha letto le prime due parti di questo articolo potrà serenamente trarre le proprie conclusioni]

Siamo al termine della narrazione. Lotti, due volte sbugiardato in dibattimento, è stato tuttavia creduto; ha vinto la sua strenua battaglia contro la verità e potrà serenamente godersi gli anni di carcere che la giustizia italiana vorrà appioppargli, avendo la fortuna di morire poco dopo.

Ho già affrontato più volte la vicenda investigativa e giudiziaria dei Compagni di merende e mi permetto di chiudere questo articolo autocitandomi.

Da: Il dilemma del giudice (settembre 2014).

Altro dilemma si presentò ai giudici del processo ai Compagni di Merende (1997-98), confrontati con le confessioni del Lotti. Già detto del valore probatorio della confessione quando dettagliata, spontanea, coerente e costante (si può continuare ad infinitum a chiedere se le dichiarazioni del Lotti avessero queste caratteristiche, ma tant'è, il discorso in tali termini, affidato com'è al principio del libero convincimento del giudice, rimane sterile), la questione principale era se credere alle chiamate in correità, in quasi assoluta mancanza di riscontri esterni. Ove non si fosse creduto al reo chiamante in correità, il risultato sarebbe stato la condanna del Lotti e l'assoluzione del Vanni – essendo Pacciani deceduto per cause naturali nel corso di quel processo senza che si potesse quindi giungere al nuovo appello nei suoi confronti. Ma era del tutto evidente che il Lotti assassino (non me ne vogliano gli amici che propugnano l'ipotesi di Lotti serial killer unico Mostro di Firenze: vedere da ultimo qui) non poteva stare in piedi senza il Pacciani capo-congrega ed il Vanni come suo deuteragonista. Sarebbe stata una conclusione del tutto ridicola ed inadeguata ad indagini condotte per lunghissimo tempo con grande impegno di mezzi e ancor maggiore clamore mediatico. E d'altra parte, il processo dipende in tutto e per tutto dal Lotti, come dimostra la scelta molto accorta della Procura di limitare l'azione penale agli ultimi cinque duplici omicidi, quelli sui quali il Lotti, bene o male, ha qualcosa da dire. Più volte nella lettura della trascrizione delle udienze si ha l'impressione che il presidente della corte d'Assise nutra un certo scetticismo nei confronti dei due testimoni principali; i difensori di Mario Vanni giocheranno tutte le proprie carte puntando sulla svalutazione delle testimonianze; e tuttavia, a conclusione del processo, ci sarà una sentenza che accoglierà, almeno per i due imputati principali, tutte le richieste dell'accusa. Un osservatore smaliziato potrebbe avvertire, diversamente da Renzo Rontini che sentiva "odore di giustizia", un fumus di ragion di Stato.

Ancora più gravosa è la scelta dei giudici della Corte di Appello che devono giudicare in secondo grado Vanni, Lotti e Faggi (quest'ultimo assolto già in primo grado). Il Lotti, infatti, non ha impugnato la sentenza per quanto riguardava la sua partecipazione ai delitti, ma solo per la misura della pena – oltre a richiedere (ma ci sarebbe voluto il rinvio alla Corte Costituzionale) il trattamento di favore riservato ai "collaboratori di giustizia". Nella parziale rinnovazione del dibattimento Lotti difende pervicacemente, si potrebbe dire "con le unghie e con i denti", la propria colpevolezza; e di questo atteggiamento bisognava pur chiedersi il motivo. Come dice il P.G. Propato in requisitoria, pur convinto che l'imputato sia estraneo ai fatti di cui si autoaccusa, "per Lotti il discorso è tragicamente breve", sarà possibile concedergli unicamente uno sconto di pena: richiede infatti 18 anni di reclusione a fronte dei 30 che gli aveva inflitto la corte di Assise. Riassumiamo. Il rappresentante dell'accusa non crede alla bontà dei testimoni, ma senza le testimonianze Lotti e Pucci il processo ai Compagni di Merende non è altro che aria fritta. Coerentemente, Propato richiede alla Corte l'assoluzione di Vanni (per sostanziale mancanza di prove), ma non può richiedere l'assoluzione di Lotti, poiché è l'imputato stesso a non aver contestato la condanna ricevuta in primo grado, se non per la misura. Se la Corte si adeguasse alla richiesta otterremmo la seguente mostruosità giuridico-pratica: Vanni assolto, forse definitivamente, Lotti, che nella coscienza dell'opinione pubblica aveva ormai assunto il ruolo, concordemente sostenuto da inquirenti e stampa, di collaboratore, che aveva, dopo molti tormenti interiori, portato a risolvere il caso, in galera, pur ritenendo la giustizia, a chiare lettere, che in realtà nulla sapesse degli omicidi. Si aggiunga Pacciani, per quasi tutti all'epoca Mostro di Firenze –da solo o in compagnia - morto da un pezzo senza sentenza definitiva quindi formalmente innocente. Di più, non credere a Lotti significa ammettere, da parte dell'apparato poliziesco e giudiziario, di non aver saputo trovare il colpevole dei delitti, come già in primo grado aveva chiosato Vanni: "Io non ho fatto niente, loro non sono stati boni di trovare il Mostro".  Il dilemma è ben spiegato nell'arringa finale dall'avvocato di parte civile Prof. Voena: "però, però, c'è un però, andiamo a spiegare alla gente al di fuori di queste aule per un problema di giudicato implicito - non è applicabile il 129 - quindi un soggetto che ha superato il vaglio di un giudizio di primo grado e che chiama altri in correità deve essere condannato a 18 anni... per essere autore di fatti materiali che i concorrenti che lui indicava, anzi i veri autori, non devono essere puniti... sarà difficile spiegarlo alla gente purtroppo ed è un compito al quale potete sottrarvi" (udienza del 20 maggio 1999).  Di fronte a questa prospettiva, Vanni diventa un vaso di coccio sacrificabile con qualche acrobazia logica e verbale. Da qui la condanna ad entrambi gli imputati che effettivamente chiude il caso (la successiva sentenza di Cassazione mette vergogna a leggerla e non ne parliamo qui).

La Stampa 1 giugno 1999

venerdì 1 novembre 2019

Lotti e le assicurazioni (2)


Sul punto della data del cambio auto, la sentenza della Corte di Assise che abbiamo letto è bene argomentata, ragionando in base ai documenti prodotti; ma forse è sfuggito un dettaglio. Se la polizza precedente decorreva dal 20 marzo (Bertini in aula dice “20 maggio” ma non può che essere un errore) e le polizze erano di durata almeno annuale, tra la polizza e il certificato del 20 settembre, relativo ad altra auto, doveva esserci stata perlomeno una voltura, anteriore al 20 settembre, per permettere all’intestatario di sfruttare il periodo di assicurazione residuo. Col senno del poi, possiamo dire che era quello il dato da ricercare e che non uscì fuori in I grado.




Il secondo atto è più breve; purtroppo non ho a disposizione i motivi di appello proposti dall’avv. Filastò, per cui dobbiamo affidarci unicamente ai verbali del processo di II grado, disponibili solo in parte (e in sintesi)  su Insufficienza di Prove (naturalmente, chi abbia voglia di ascoltarsi tutto il dibattimento, comunque molto interessante, può ricorrere al sito di Radio Radicale). Nella prima udienza (17 maggio 1999) il Consigliere Relatore sintetizza così:


Relatore: Così stando le cose la Corte di Assise ne prende atto e dice, ma non solo dalle dichiarazioni del Lotti, ma dalle certificazioni in atti qua risulta che la 124 risulta assicurata solo dal 20 settembre e quindi è certo che fino ad allora Lotti ha usato la 128 rossa. Nel frattanto di questo prende atto e continua. Io non finisco qua ma aggiungo quanto ci viene detto in sede di impugnazione, avete visto i motivi aggiunti, se no ve lo spiego io. In sede di motivi aggiunti di appello, lo dico subito, i difensori, questa volta tutti e due, del Vanni hanno prodotto un documento, ci hanno detto che hanno effettuato loro indagini, più semplici di così si muore, infatti si meravigliano del fatto che non ci sia stato un poliziotto a Firenze che l'abbia pensato, perché si sono limitati a recarsi presso l'agenzia di quella compagnia assicuratrice di Firenze, che non è pensabile che Lotti vada a Genova ad assicurarsi, si assicurerà o a San Casciano o a Firenze e l'agente della compagnia assicuratrice gli ha consegnato tanto di polizza, che noi abbiamo in fotocopia ma che speriamo di leggere in originale attinente al 124. Io non ci ho letto nulla ma quello che si legge è un timbro. Sembrerebbe che questa polizza sia stata stipulata il 25 maggio 1985, quindi sembra che la 124 abbia iniziato a circolare, diversamente era inutile assicurarla, dal mese di maggio '85. Questa è la novità importante in questa sede di appello.


Quindi vi era una polizza intestata alla FIAT 124 presso l’Agenzia di Firenze; allora ci si dovrebbe chiedere come mai il 17 marzo dell'anno precedente il presidente della Corte di Assise era stato diversamente informato. Rileggiamo la trascrizione dell’udienza.

Presidente: Allora, a questo punto apriamo una parentesi per dire questo. Il dottor Vinci, il funzionario della Questura fa questa comunicazione: "In relazione all'ordinanza 16/03/98, si comunica l'esito delle acquisizioni disposte. Per quanto concernente l'acquisizione di cui al punto A non è stato possibile...", sarebbe quella dichiarazione...  Non è stata possibile eseguirla in quanto l'ACI, ufficio provinciale di Firenze, ha fatto presente che la documentazione in questione risulta essere stata inviata al macero." Quindi non c'è. "Non è stato altresì possibile acquisire copia della documentazione inerente alla copertura assicurativa della vettura FIAT 128 coupé targata FID56735 e dell'autovettura FIAT 124 targata - FIE42432, in quanto la compagnia assicuratrice Allsecures Assicurazioni ha fatto presente che la polizza numero 67053 relativa alla 128 e la polizza numero 69395 relativa alla FIAT 124, polizze entrambe emerse nella perquisizione del 23/01/96, non risultano presenti presso l'archivio di sede”.

Le polizze cercate dal Presidente e non trovate dalla Questura erano dove dovevano essere; soltanto che, come spiegherà in udienza il nuovo titolare dell’Agenzia, alla compagnia assicuratrice All Secures era subentrata la AXA; dovrebbe essersi trattato di una trasformazione sociale, la sede dell’Agenzia era rimasta la stessa, in via degli Orti Oricellari 32.  


A questo punto una piccola parentesi. Ho potuto recentemente prendere visione di un documento (annotazione di P.G. del 21.12.1996) riconducibile alla Questura di Firenze – Squadra Mobile, al quale è allegato un riepilogo delle auto possedute da Lotti Giancarlo, apparentemente stilato il 29 agosto 1996. In tale riepilogo, mentre la fine possesso della FIAT 128 è collocata in data 19 marzo 1986, come poi dirà in udienza il dott. Fausto Vinci, piuttosto sorprendentemente l’inizio possesso della FIAT 124 si situa il 3 luglio 1985, che è appunto la data della trascrizione notarile presentata dalla difesa di Vanni in sede di giudizio. Se ne deduce che la polizia aveva accertato il fatto ben prima che Filastò comparisse in aula sventolando il rapporto dell’Agenzia Falco; forse, molto semplicemente, il dato risultava al PRA. Forse per questo, all’epoca, la pubblica accusa non era sembrata molto sorpresa nell’apprendere la notizia e la mattina dopo Lotti o chi per lui era già pronto a presentare la documentazione attestante, ma contrariamente al vero, che il 128 era rimasto assicurato fino al 20 settembre 1985 (vedi I Parte). Quindi non pare corretto dire che non si investigò, ma semmai che questo dato, che poteva essere critico nella costruzione dell’ipotesi accusatoria (a che scopo il quasi indigente Lotti avrebbe mantenuto contemporaneamente due auto?) fu sottaciuto. Con buona pace del principio stabilito nell’art. 358 CPP: “Il pubblico ministero compie ogni attività necessaria ai fini indicati nell'articolo 326 e svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”; a meno che non sia lecito svolgere le indagini, ma poi non tenerne conto. Lascio la risposta ai professionisti del diritto; e ai lettori la possibilità di sviluppare altrove i propri (cattivi) pensieri. Ringrazio altresì la signora Francesca Calamandrei per aver tratto dal proprio archivio una trascrizione leggibile del documento dandomi il permesso di pubblicarla qui.




Citiamo ora per brevità da “Al di là di ogni ragionevole dubbio”:

“La difesa di Vanni, incassata la sconfitta in primo grado, non si era data per vinta e l’avvocato Mazzeo aveva deciso di recarsi personalmente all’agenzia submandataria di Firenze. A 12 anni dai fatti era una mossa disperata. Ma siccome la fortuna aiuta gli audaci e talvolta i disperati, l’avvocato uscì fuori dall’ufficio dell’agenzia con una preziosissima cartellina che avrebbe dovuto essere la chiave per tirare fuori il Vanni dalla galera. Dalla cartellina saltò fuori un contratto d’assicurazione e due denunce di sinistro (…). I due sinistri (…), il primo datato 22 giugno del 1985 e il secondo 31 luglio dello stesso anno. Come possa aver fatto un incidente il 22 giugno con la 124 che era stata acquistata il 3 luglio, lo spiega il terzo documento: un contratto assicurativo datato 26 maggio 1985. Quel contratto, polizza 69395, riguarda infatti un passaggio di assicurazione dalla 128 rossa al 124 blu, effettuato il 25 maggio del 1985. In sostanza, Lotti era entrato in possesso del 124 almeno sin dalla fine di maggio e questa doveva essere la vera data in cui era materialmente stata redatta la scrittura privata che evidentemente era stata autenticata solo tempo dopo. A quella stessa data, per potersi portare via l’auto, Lotti l’aveva assicurata e non potendo ovviamente tenere due auto, aveva passato l’assicurazione della vecchia, il 128 rosso, su quella nuova, il 124 blu”.


Sulla base dei nuovi documenti portati dalla difesa del Vanni, la Corte di Appello decide la riapertura parziale del dibattimento per ascoltare altri testi e lo stesso Lotti su quanto emerso in merito alle date dell’assicurazione. Il giorno 18 viene sentito il nuovo agente della società assicuratrice, il sig. Bartoli, che conferma che il passaggio dell’assicurazione da auto precedente alla FIAT 124 era avvenuto il 25 maggio 1985 alle ore 10. Il teste non conosce il modello dell’auto che viene sostituita, ma risulta il numero della polizza, 67053, che è ovviamente quella relativa al 128 (vedi sopra). Segue il sig. Tartagli, che nel “lontano luglio 1985” (cito le parole del presidente) aveva avuto un incidente stradale con il Lotti con conseguente richiesta di rimborso, esistente agli atti dell’assicurazione. 
Da “Insufficienza di prove”: “Il Presidente della Corte gli chiede quindi se si ricorda dell'incidente e della missiva inviata alla compagnia assicurativa. Il signor Tartagli ricorda d'aver posseduto una Ford Fiesta ma non ricorda né dell'incidente né della lettera inviata all'assicurazione. Riconosciuta la sua firma sulla lettera inviata alla All Secures Preservatrice viene congedato”. (Nota: secondo Antonio Segnini, la totale cancellazione dalla memoria del teste dell’incidente è sospetta e indicherebbe una “coscienza sporca” nell’avere in realtà avuto l’incidente con il 128, non più assicurato, ed avere poi aggiustato i dati nella denuncia, sottintendo una frode all’assicurazione in concorso con il Lotti. Registro questa opinione, pur non condividendola; potrebbero esserci altri motivi a giustificare la smemoratezza del testimone, che nella registrazione audio appare piuttosto emozionato e agitato; la questione poteva essere comunque meglio approfondita in sede di giudizio. L’altro incidente non venne esaminato).


A questo punto viene sentito Lotti, che in qualità di imputato potrebbe rifiutarsi di rispondere, ma è disposto a subire l’esame. Ricordandoci di quanto aveva dichiarato nel processo di I grado, leggiamo le sue risposte alle domande del Consigliere Relatore Loche:

Consigliere: Bene. L'episodio a cui ci riferiamo riguarda il 128 rosso, lei ricorda d'aver detto sin dall'inizio dell'istruttoria, quelli che lei chiama "colloqui", che agli Scopeti c'era andato con Pucci con questo 128 rosso. (…)  perché si voleva sapere e lo vorremmo sapere ancora noi, lei che macchina aveva l'8 settembre 1985 agli Scopeti.

Giancarlo Lotti: Il 128.

Consigliere: Il 128 e lei continua a dire questo. Adesso le faccio sapere una cosa. Si è scoperto che questo 124, che lei aveva comprato, lei l'aveva addirittura assicurato. In maggio, addirittura nel mese di...

Giancarlo Lotti: Io le adoperavo tutte e 2 le macchine, il 128 e il 124. (NdR: Lotti interrompe, non fa finire la domanda, ha preparato una sua versione)

Consigliere: Ah, lei contemporaneamente le usava tutte e due, il 128 e il 124, abbiamo capito bene?

Giancarlo Lotti: Si, si, si.

Consigliere: Però in primo grado lei disse un'altra cosa, se lo ricorda?

Giancarlo Lotti: Forse non mi ricordavo preciso, un'altra volta... (…) Perché non ricordavo preciso se avevo anche quell'altra invece...

Consigliere: Non se lo ricordava preciso.

Giancarlo Lotti: Invece ora me lo ricordo preciso.

Consigliere: Ma ci ha pensato in questi tempi?

Giancarlo Lotti: No, ci ho pensato, sì, ci avevo il 128 e il 124.

Consigliere: Lei li usava tutti e due, come mai?

Giancarlo Lotti: ...poi a un certo punto fermai quell'altra, di marzo dell'86, la fermai (NdR: Lotti non risponde alla domanda).

Consigliere: Cioè la diede al disfacimento?

Giancarlo Lotti: No, la tiensi ferma a casa. Perché subito il carroattrezzi un mi riuscia di trovallo e allora la tiensi ferma, non lo so, può darsi siano 7 mesi, non lo so quanto la stette ferma, poi mi toccò scancellarla, sennò mi toccava pagare il bollo anche di quella lì.

Presidente: Ma lei non era assicurato col 128.

Giancarlo Lotti: No, ci avevo il coso, però non era assicurata, ne assicurai una sola, 2 come fai a assicuralle?

Consigliere: Ma scusi, per venire a Firenze perché non ha usato la macchina assicurata?

Giancarlo Lotti: Mah, se adoperavo quella lì... adoperavo due macchine!

Consigliere: Così, gli è venuto di usare quella senza assicurazione...

Giancarlo Lotti: Mah, m'andava così...


Tralascio il lungo interrogatorio al quale Lotti viene sottoposto dai difensori, perché ben noto, essendo da anni disponibile su YouTube e perché non aggiunge niente di sostanziale: Lotti afferma di avere avuto in uso ambedue le auto e di usare l’una o l’altra come gli andava e secondo la lunghezza del percorso; contraddicendo quindi la versione data al processo di I grado (Nota: udienza del 17 marzo: “Giancarlo Lotti: Ma dopo, dopo quande presi il 128 [intende la 124] la stette ferma. (…) Quande presi il 124 l'era ferma la macchina”). 


In sostanza, Lotti, posto di fronte all’evidenza documentale di aver assicurato la nuova auto a decorrere dal 25 maggio (e non dal 20 settembre, come aveva decisamente sostenuto presentando – tramite il suo avvocato – documenti che avevano fuorviato la Corte), smentisce se stesso e quanto affermato in I grado, rifugiandosi in corner dicendo di aver usato contemporaneamente due auto, perché “gli andava così”.  Gli sfugge detto che l’auto vecchia rimase ferma per parecchio tempo (“può darsi siano sette mesi”) e non “qualche giorno” come aveva interloquito con il presidente nel primo processo. Teniamo conto che, se la richiesta di cancellazione è del 19 marzo 1986 (come dice in aula Fausto Vinci – vedi Parte I; o 3 aprile come dice Canessa, il tutto non è molto chiaro), a quella data l’auto doveva essere già stata rottamata e le targhe riconsegnate; del resto, la data del marzo ’86, con tutta evidenza, era significativa per Lotti solo riguardo alla scadenza del bollo; è per evitare un nuovo pagamento che Lotti provvede alla cancellazione al PRA, mentre l’auto doveva essere da tempo fuori uso, come da ricordi degli Scherma. In altre parole, se la richiesta di cancellazione venne presentata a fine marzo, possiamo essere sicuri che a quella data l’auto era già stata rottamata e che, per alcuni mesi prima di essere portata via dallo “sfattino”, essa era già inutilizzabile; come sappiamo, la data precisa è rimasta, nonostante gli sforzi degli avvocati difensori, ignota (Nota: o potrebbe, ipoteticamente, essere stata accertata e risultare successiva al 8 settembre, nel qual caso il dato non avrebbe avuto valenza giudiziaria).

Lotti, nelle sue risposte, ha però introdotto un ulteriore elemento di dubbio che risulterà alla fine decisivo, dicendo che il 128, anche dopo il passaggio dell’assicurazione alla 124, “ci aveva il coso”.  Nel linguaggio lottiano, il coso non può indicare che il contrassegno di assicurazione da apporre obbligatoriamente, fino a pochi anni fa, sul parabrezza della vettura. Che fine aveva fatto il contrassegno del 128 rosso, che Mazzeo non aveva rinvenuto in pratica? Anche per appurare questo aspetto, il PG Propato aveva richiesto l’audizione del titolare dell’Agenzia di Firenze della Allsecures Preservatrice nel 1985, sig. Roberto Longo, che viene appunto interrogato sulla prassi seguita nei casi di voltura di una polizza da una vettura dismessa a una appena acquistata.  
 Citiamo dalla sintesi di Insufficienza di Prove: “Al teste viene mostrata una polizza intestata a Giancarlo Lotti relativa ad una Fiat 124. Questi riconosce la polizza come emessa dal suo ufficio benché a San Casciano le pratiche fossero gestite da Meri Bellini, dell'autofficina Bellini. Il Presidente chiede al teste se prima di volturare una polizza venivano chiesti indietro il certificato ed il contrassegno di assicurazione. Il signor Longo risponde che la prassi prevedeva il ritiro del vecchio certificato e del vecchio tagliando onde evitare che la compagnia dovesse coprire eventuali sinistri relativi a due vetture benché il premio incassato si riferisse ad un solo mezzo. Il teste non esclude però che con i clienti noti venisse emessa la nuova polizza senza disporre dei documenti del precedente veicolo”. In effetti, forse nell’occasione qualcosa non era stato stato fatto a dovere: la subagenzia di San Casciano avrebbe dovuto, naturalmente, ritirare contrassegno e certificato del 128 all’atto della voltura, ma sembrerebbe che non l’abbia fatto, in quanto il 17 marzo 1998 almeno il certificato originale (non il contrassegno, mai ritrovato e possibilmente rottamato insieme all’auto) era a mano dell’avv. Bertini, che lo aveva presentato alla Corte per parare la mossa di Filastò. 

L'Autofficina Bellini a San Casciano Val di Pesa



L’escussione dei testimoni termina qui. La risultanza, a dirla in due parole, è che Lotti ha ripetutamente mentito, ma non si è trovata una prova tangibile e certa che il 128 rosso, all’epoca del delitto degli Scopeti, non fosse materialmente in grado di circolare, pur con contrassegno di assicurazione scaduto e il motore marciante a balzelloni.

Ciò che è uscito dal processo di appello, però, è sufficiente per convincere il rappresentante dell’accusa che, se Lotti ha mentito sull’auto può aver mentito su tutto, quindi la chiamata in correità, considerato anche che “il Pucci del dibattimento non può essere utilizzato a riscontro di dichiarazioni”, viene a cadere. Coerentemente chiederà l’assoluzione di Mario Vanni. Ma leggiamo il passo delle conclusioni, in cui Propato affronta la questione del passaggio dal 128 alla 124 (siamo all’udienza del 20 maggio 1999).

“P.G.  (…) chiama in ballo la questione della 128. Come si poteva immaginare Lotti è venuto davanti a voi e di fronte alla nuova emergenza processuale ha dato la risposta più logica: "le usavo tutte e due". Ma bisogna andare a rileggere le dichiarazioni del Lotti su ciò che riguarda l'automobile 128. Lui quando ha consegnato il certificato di assicurazione fino al settembre '85 sulla Fiat 128 mentre non ha consegnato il contrassegno, quando lo ha consegnato ha impostato le sue dichiarazioni su quel presupposto. "Io fino al 20 settembre non circolavo con la 124 perché avevo l'assicurazione sulla 128". Si legge da più parti nel verbale dibattimentale "io non avevo i soldi per far andare due macchine. Perché usavi due automobili? Perché mi garbava così." A mio avviso non è una risposta valida quando la risposta sia stata data dopo pagine e pagine di domande sulla 128, impostate sul presupposto "io ci ho il certificato di assicurazione, io giravo con quella macchina". I vari testimoni vicini di casa e lo stesso Lotti, parlano di "qualche mese" di aver avuto contemporaneamente 128 e 124. Nel primo dibattimento quando gli hanno fatto qualche domanda, alla fine ha ammesso di essere uscito con la 128 ma ha detto "qualche volta", a voi direttamente ha detto la usavo per i viaggi più vicini, non lontano, combinazione, a Firenze lui ha fatto due incidenti entrambi con la 124. E' credibile che per andare alla piazzola degli Scopeti piglia la 128 e lascia la 124? Ma perché mai doveva decidersi a comprare un'automobile i cui soldi glieli ha dati il datore di lavoro? Lui non ce li aveva, segno è che la 128 o non funzionava completamente o comunque era diventata una carretta. E' questo il punto da valutare e che ha incrinato certe mie convinzioni. Perché si assiste a un Lotti che modifica le risposte a seconda delle necessità. La 128 l'hanno vista i coniugi Caini/Martelli ma danno un certo orario e su quell'orario a lungo non s'è saputo nulla, soltanto alla fine, Pucci, dice che hanno spiato la coppia nel pomeriggio ma di questo spiare la coppia nel pomeriggio il Lotti non ne parla, quindi se si son fermati o non si sono fermati è una circostanza completamente dubbia.

Il possesso della 128, questo elemento considerato da tutti fondamentale gli va messo almeno, almeno, uno o due punti interrogativi”.


La Stampa - 21 maggio1998


Sul punto leggiamo anche un breve passo dell’arringa dell’Avv. Mazzeo (21 maggio): “Guardate che pertinacia autoaccusatoria, che poi ritroveremo a proposito dell'assicurazione, lui non solo dice il falso a proposito dell'epoca a partire dalla quale avrebbe assicurato la macchina nuova, la 128, lui l'ha detto per venti volte nel primo giudizio dal 20 settembre, quando messo di fronte all'evidenza delle carte non può più sostenere questa cosa, va bene, non può più sostenere questa cosa, allora porta i certificati dell'assicurazione per mantenere nell'errore i giudici, questo è gravissimo e lo riportano in sentenza in tutte quelle pagine che conoscete. Lui addirittura, poi abbiamo capito dopo con le ricerche che si sono fatte, che in realtà la polizza l'aveva fatta sulla nuova macchina, quindi aveva cominciato a circolare e ci aveva fatto pure due incidenti dal 25 di maggio, ma lui pertinacemente, pervicacemente ha sempre detto: no io l'ho assicurata dal 20 settembre, ho cominciato a circolare col 124 dal 20 settembre, quindi dopo il delitto di Scopeti perché lì c'era la 128 e addirittura abbiamo la situazione di un personaggio che si preoccupa di portare dei pezzi di carta, dopo aver indotto in errore il magistrato, per mantenerlo nell'errore, per mantenerlo nell'errore, tenercelo fermo e quando si scardina anche questa cosa, perché si trova la polizza, si ritrova la storia delle due macchine in contemporanea (…)”


Prima di affrontare l’epilogo della tragicommedia, costituito dalla sentenza di appello, è tempo di fermarsi a fare qualche considerazione. Posto che non si raggiunse la prova, cercata dai difensori, della rottamazione della macchina rossa anteriormente alla data del delitto, unico elemento che poteva smontare al 100% la versione di Lotti e Pucci, il risultato combinato dei due dibattimenti è che certamente Lotti mentì relativamente alle sue auto. Prima, in corso di indagini, omettendo di dire che all’epoca aveva (anche - o forse solo) una 124 celeste; poi, in I grado, affermando di non aver usato la 124 prima del 20 settembre 1985 e fornendo, tramite il suo avvocato, documentazione palesemente fuorviante; infine, dicendo, al di là di ogni credibilità, di avere, e per un periodo non di pochi giorni, ma almeno 4 mesi, usato entrambe le macchine. Ma è palese che se lo spiantato Lotti acquista un’auto chiedendo soldi al datore di lavoro, non può ragionevolmente essere perché quella particolare auto “gli garba”, bensì per il ben più cogente motivo che la precedente è ormai fuori uso. Chiariamo subito un aspetto: Lotti a processo non è un testimone, ma un imputato. Può mentire, in ossequio al principio generale “nemo tenetur se detegere”, naturalmente a discapito della propria credibilità nel momento in cui la menzogna venga smascherata (Nota: perché un chiamante in correità palesemente bugiardo fu ritenuto invece credibile in tre gradi di giudizio, è un quesito che meriterebbe una spiegazione, che non può però essere conclamata). E’ questo del resto il motivo principale per cui Pucci non fu mai indagato (sarebbe stata necessaria la presenza di un avvocato) e tanto meno imputato (non avrebbe potuto testimoniare). Ma, di norma, il reo mente per discolparsi; siamo invece qui di fronte a un soggetto che pervicacemente dicendo il falso ed omettendo particolari, si autoaccusa; di questo, dobbiamo trovare una motivazione. Accertato senza problemi che Lotti non è un mitomane né ha una volontà di espiazione dei delitti ipoteticamente commessi, non mostra segni di pentimento o rimorso né alcuna empatia per le vittime, la menzogna risulta essere la sua strategia difensiva, tesa unicamente a mantenere lo status di collaboratore di giustizia, status che, come già abbiamo visto (qui e qui), sarebbe potuto perdurare oltre la sentenza definitiva e concludersi con una dichiarazione di non punibilità, come richiesto dal suo avvocato. Non si può evitare di pensare che ci sia, sottostante, quanto meno un tacito patto tra inquirenti e indagato / imputato al fine di dare le conferme necessarie per portare a termine l’inchiesta in cambio della protezione, come d’altra parte, lecitamente, avviene nella fattispecie della collaborazione di giustizia. Lotti si è immaginato, a torto, che la protezione andava garantita anche mediante la menzogna e che la menzogna lo avrebbe tenuto fuori dalla galera.

Allora, una volta accettato questo dato di fatto, la ricostruzione della vicenda dei Compagni di merende diventa lineare e univoca. Lotti viene incastrato dalla polizia sul tema della macchina rossa, grazie a testimoni della forza di Pucci e Ghiribelli e subito segregato sotto protezione per iniziativa di Vigna. Non ha i mezzi né intellettuali né economici per provare a trarsi d’impaccio, anzi, a ogni sua dichiarazione, peraltro sempre innescata dall’oligofrenico Pucci, si inguaia sempre di più, fino a sfociare nella dichiarata complicità con il duo di serial killer Pacciani + Vanni. A quel punto, non ha scampo se non nella più piena collaborazione; fattagli balenare la possibilità di cavarsela in qualche modo grazie alla legge sui pentiti, deve dire di più per non perdere questa occasione; finisce per autoaccusarsi di aver sparato a Giogoli. La collaborazione è la sua forza e la sua speranza, anche dopo la prima condanna e fino alla Cassazione; grazie alla collaborazione si sente spalleggiato e regge e ribatte, con arroganza e strafottenza, lui rozzo e ignorante tanto da non comprendere spesso le domande, al martellante controesame dei difensori. E quando ha l’inattesa opportunità, offertagli dalla difesa di Vanni, di uscirne per il rotto della cuffia con una condanna per calunnia, non è in grado di valutare correttamente i pro e i contro, rischi e vantaggi delle nuove acquisizioni documentali e si attacca disperatamente alle sue posizioni: collaborare e confermare sempre e ad ogni costo. E’ evidentemente convinto che solo mediante l’affermazione giudiziaria della colpevolezza di Pacciani e Vanni potrà ottenere quella scappatoia che ha creduto essergli promessa. 
In fin dei conti, Lotti si dimostra alla prova dei fatti e della ricostruzione storica non l’astuto e reticente complice ipotizzato da Fornari e Lagazzi e neppure il diabolico serial killer di cui ci racconta Antonio Segnini (qui), ma una marionetta in balia di forze molte più grandi e accorte di lui.


Nella terza e ultima parte prenderemo in esame l’amaro epilogo della storia, la sentenza di appello.

[SEGUE]