Il testo che segue è la bozza del primo Capitolo del nuovo volume dell'opera "Storia del Mostro di Firenze", che mi sono finalmente accinto a scrivere. Auguri, "in bocca al lupo", ma anche critiche motivate sono bene accetti.
Blogger non mantiene il link tra testo e note, quindi dovete fare un po' di bel su e giù.
Non si può parlare del caso dei Compagni di merende senza prima accennare a ciò che avvenne nel corso del processo di I grado a Pietro Pacciani: l’ipotesi investigativa che andiamo a trattare è infatti una superfetazione quasi involontaria della prima posizione adottata dalla Procura, di portare sul banco degli accusati, per tutti gli otto duplici omicidi attribuiti al Mostro di Firenze, il solo Pietro Pacciani. Del resto, per tutti i lunghi anni delle indagini, nel mentre avvenivano i delitti, vi era stata quasi unanimità di pareri, salvo qualche sporadica boutade giornalistica, sulla necessità di ricercare un serial killer unico, un lust murderer psicopatico affetto da una qualche perversione sessuale; e l’unico dubbio fondato poteva essere quello se attribuirgli o meno il duplice omicidio di Signa 1968, una valutazione che teneva anche conto di dover ammettere, in caso positivo, la commissione di un grave errore giudiziario nel processo contro Stefano Mele. La “pista sarda” testardamente seguita negli anni Ottanta derivava, d’altronde, anche dalla volontà di attenuazione del possibile errore: Mele era pur sempre colpevole, o quanto meno partecipe, ma in concorso con altri che poi per qualche motivo avevano continuato ad uccidere [1].
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Non si può parlare del caso dei Compagni di merende senza prima accennare a ciò che avvenne nel corso del processo di I grado a Pietro Pacciani: l’ipotesi investigativa che andiamo a trattare è infatti una superfetazione quasi involontaria della prima posizione adottata dalla Procura, di portare sul banco degli accusati, per tutti gli otto duplici omicidi attribuiti al Mostro di Firenze, il solo Pietro Pacciani. Del resto, per tutti i lunghi anni delle indagini, nel mentre avvenivano i delitti, vi era stata quasi unanimità di pareri, salvo qualche sporadica boutade giornalistica, sulla necessità di ricercare un serial killer unico, un lust murderer psicopatico affetto da una qualche perversione sessuale; e l’unico dubbio fondato poteva essere quello se attribuirgli o meno il duplice omicidio di Signa 1968, una valutazione che teneva anche conto di dover ammettere, in caso positivo, la commissione di un grave errore giudiziario nel processo contro Stefano Mele. La “pista sarda” testardamente seguita negli anni Ottanta derivava, d’altronde, anche dalla volontà di attenuazione del possibile errore: Mele era pur sempre colpevole, o quanto meno partecipe, ma in concorso con altri che poi per qualche motivo avevano continuato ad uccidere [1].
Pacciani, contadino di Mercatale Val di Pesa (in
comune di San Casciano), originario di Vicchio del Mugello, con gravi
precedenti (omicidio di un rivale in amore nel 1951, violenza carnale continuata
nei confronti delle due figlie) era stato individuato come sospetto nel 1989,
mentre si trovava in carcere. Dopo lunghe indagini condotte con grande impegno
e spiegamento di mezzi dalla SAM (Squadra Anti Mostro) diretta dal commissario
Ruggero Perugini, Pacciani, scarcerato nel dicembre 1991 per aver scontato la condanna
per la violenza alle figlie, era stato nuovamente arrestato e sottoposto a
custodia cautelare nel gennaio 1993, questa volta sospettato di quattordici
omicidi [2]. Le
indagini erano continuate e esattamente
un anno dopo (15 gennaio 1994), Pacciani era stato rinviato a giudizio,
imputato ora anche per il delitto di Signa. Il processo in Corte d'Assise,
presieduto dal giudice Enrico Ognibene [3],
iniziò, nella massima attenzione degli organi di informazione locali e
nazionali, il 19 aprile 1994. Bruna Bonini, madre di una delle prime vittime
del Mostro (Stefania Pettini, uccisa a Borgo San Lorenzo nel 1974), aveva detto
di non credere che venisse fatta giustizia, perché l’assassino non poteva aver
fatto tutto da sé [4]. All’apertura
del processo, invece, il rappresentante della Procura, il PM Canessa, che si
occupava del caso ormai da dieci anni, era perfettamente convinto che Pacciani
avesse fatto tutto da solo [5],
in perfetta consonanze con l’ex capo della SAM Perugini [6].
Questa presunzione cominciò a vacillare quando,
nell’udienza del 26 maggio, vennero chiamati a testimoniare due amici di
Pacciani, il compaesano Mario Vanni, postino in pensione, e Giovanni Faggi, di
Calenzano. L’atteggiamento di entrambi i testi fu considerato reticente. Vanni,
subito dopo aver declinato le proprie generalità, si era premurato di chiarire
di essere soltanto stato a fare delle merende con Pacciani; poiché la domanda
del PM era tutt’altra e riguardava la sua professione, la risposta aveva creato
ilarità nel pubblico e indignato il presidente, oltre a creare la locuzione,
subito ripresa dalla stampa, “amici / compagni di merende”. Poiché tutto
l’esame del Vanni da parte del PM si era svolto su questa falsariga di risposte
evasive e non conseguenti, Canessa aveva adombrato la possibilità che il teste
non parlasse per paura (ovviamente del Pacciani, che allo stato era in carcere,
ma avrebbe pur sempre potuto uscirne alla conclusione del processo) e lo aveva
apertamente minacciato di accusarlo formalmente per falsa testimonianza [7].
Quanto a Giovanni Faggi, aveva ammesso solo una
superficiale e sporadica frequentazione del Pacciani, dovuta a motivi legati
alla sua attività di rappresentante di piastrelle. In sostanza, lo avrebbe
visto due volte in vita sua e gli aveva mandato una cartolina. Senonché,
proprio nella stessa udienza, una teste aveva confermato di aver visto Faggi a
San Casciano in compagnia di Pacciani e Vanni e anche, con qualche incertezza,
alla Sambuca, essendo vicina di una presunta amante di Pacciani e Vanni.
Cosicché anche la sua deposizione, ulteriormente incentrata sulla vicinanza
della sua abitazione a Calenzano con il luogo del delitto delle Bartoline (22
ottobre 1981), oltre che, piuttosto impropriamente, sui suoi gusti in materia
di sesso, aveva lasciato un’impressione di reticenza e di cose non dette.
Ma fino a questo punto si poteva pensare che si
trattasse di amici più o meno intimi dell’imputato, che potevano aver intuito o
saputo qualcosa dei suoi misfatti grazie alle comuni frequentazioni, ma si
rifiutavano di parlare per non avere guai con la giustizia o, più
probabilmente, nel timore di vendette. Il quadro però cambiò di botto quando
Lorenzo Nesi, commerciante di San Casciano, amico di Vanni e conoscente di
Pacciani, si presentò in tribunale a rivelare un elemento del tutto nuovo [8].
La sera dell’8 settembre 1985, tornando a San Casciano da una gita domenicale
con amici sull’Appennino tosco-emiliano, aveva incrociato l’auto del Pacciani al
crocevia tra via di Faltignano e via degli Scopeti, in orario compatibile con
la commissione dell’omicidio. Il Nesi era il primo teste che affermasse di aver
visto l’imputato in un tempo e luogo vicino a una scena del crimine; l’incrocio
tra via di Faltignano e via degli Scopeti dista dal luogo del delitto circa 2
km ;
quanto all’orario, il Nesi aveva parlato delle 23, un altro teste suo compagno
di gita, aveva leggermente anticipato tra le 22 e le 22.30 [9]. La
cosa più importante era però che il teste era sicuro di aver visto il Pacciani
in compagnia di un altro uomo, non identificato. Quindi, se il Nesi aveva visto
giusto identificando la Ford Fiesta del Pacciani, poco prima o poco dopo il
delitto l’imputato era insieme a un accompagnatore non identificato, che
nell’ipotesi accusatoria non poteva essere altri che un complice o quanto meno
un aiutante.
Un altro colpo di scena si ebbe quando nell’udienza
del 13 luglio si recò a testimoniare Ivo Longo [10],
che riferì di essersi quasi scontrato con Pacciani sulla superstrada Siena
–Firenze, poco dopo lo svincolo di San Casciano, intorno alla mezzanotte dell’8
settembre 1985. Il teste era sicuro di aver riconosciuto l’imputato per averlo
guardato a lungo attraverso il finestrino aperto, giacché le auto avevano
proceduto per un tratto affiancate e la luce dell’abitacolo dell’auto del
Pacciani era accesa. La macchina vista dal teste, però, un’auto di media
cilindrata a tre volumi di colore scuro, non poteva essere confusa con quella
di Pacciani, una Ford Fiesta bianca con modanature rosse. Ne risultava, sempre
che anche in questo caso il teste avesse avuto ragione, che, subito dopo il
delitto, Pacciani, estremamente sudato e in stato di agitazione e quasi in trance, avrebbe imboccato l’Autopalio in
direzione di Firenze, ma su un’auto che non era la sua.
Infine, il giorno successivo venne sentito, chiamato
dalla difesa Pacciani, l’avvocato Giuseppe Zanetti. L’avvocato raccontò che nel
mese di settembre 1985, prima della scoperta dell’omicidio (9 settembre) si
allenava spesso con la bicicletta, dopo il lavoro, lungo via degli Scopeti e in
più occasioni aveva visto ferma sul bordo della strada un’auto che poteva
essere quella di Pacciani (Ford Fiesta chiara con sottile profilatura rossa
lungo la fiancata); l’auto di solito era vuota, ma per due volte aveva scorto e
osservato attentamente un uomo fermo accanto alla macchina, persona di cui
poteva dare una descrizione molto precisa: “oltre
il metro e settanta, presumibilmente intorno a un metro e settantacinque,
robusta, un viso largo, ma di guance strette; la bocca molto carnosa, il naso
tendente all'aquilino, ma non troppo, capelli sale e pepe, più sale che non
pepe, e vestita, entrambe le volte, con un giubbotto di stoffa azzurro, carta
da zucchero, più o meno, e un paio di pantaloni beige, beige chiari. Carnagione
tendente allo scuro, insomma, leggermente olivastra”. Ma quello che al
difensore importava di mettere in evidenza era che il teste non riconosceva
assolutamente, nell’uomo da lui visto nove anni prima, l’imputato. L’intento
della difesa, chiaramente, era di avanzare l’ipotesi che vi fosse qualcun altro
in zona in possesso di un’auto del tutto simile a quella di Pacciani e che nei
giorni precedenti il delitto aveva sorvegliato la zona della piazzola (anche se
occorre dire che il teste non aveva collocato la misteriosa auto direttamente
sotto la piazzola del delitto, ma in altre piazzole, stradine e slarghi
limitrofi, ma non meglio identificati).
Quindi, si trattava di tre nuove testimonianze, non note
all’apertura del processo, che indubbiamente complicavano il quadro indiziario
iniziale: il soggetto non identificato visto dal Nesi a fianco di Pacciani
sulla sua auto, era un complice? L’auto scura sulla quale Pacciani, sudato e
stravolto, correva verso Firenze, gli era stata fornita da qualcuno, che, magari
anche inconsapevolmente, lo aiutava ? L’uomo descritto da Zanetti accanto
all’auto di Pacciani era una sorta di basista che sorvegliava la zona in
preparazione del delitto?
Naturalmente,
un osservatore obiettivo avrebbe potuto facilmente interpretare i nuovi
elementi a favore dell’imputato. Se Pacciani poco prima del delitto era in
compagnia di un terzo e si stava, tra l’altro, allontanando dalla scena del
crimine, era difficile credere che dopo una mezz’ora avrebbe potuto compiere la
strage, atteso che i periti di Modena avevano affermato senza ombra di dubbio
l’ipotesi di un unico autore dei reati [11].
Se un uomo molto assomigliante a Pacciani era stato visto subito dopo il
delitto su un’auto di cui Pacciani mai aveva avuto la disponibilità, forse il
soggetto visto, in fondo, non era l’imputato. Se un’auto molto simile a quella
in uso a Pacciani era stata vista in prossimità del luogo del delitto, e
accanto vi era un uomo che sicuramente non era Pacciani, forse vi era in giro,
in quei giorni di settembre, una Ford Fiesta che non era quella dell’imputato.
Elementi da valutare, che avrebbero potuto risvegliare nella Corte qualche
ragionevole dubbio [12].
Come si sa, lo svolgimento del processo era
capillarmente seguito dagli organi di informazione e i corrispondenti di alcuni
grandi giornali nazionali accolsero con scetticismo e un po’ di ironia i nuovi
testimoni che si facevano vivi dopo un decennio a esporre le proprie certezze [13]. Altrettanto
naturalmente, invece, il PM Canessa fu pronto a utilizzare le testimonianze in
senso favorevole all’accusa, stando però ben attento, con grande abilità, a non
stravolgere l’impianto generale del processo che aveva puntato tutto su
Pacciani come serial killer unico.
Nella sua requisitoria finale (udienze 18-19 ottobre), Canessa prefigurava uno
scenario di sordidi vizi e perversioni (voyeurismo, falli artificiali,
violenze) messi in atto da uomini “vecchi dentro” (qualsiasi cosa questa
espressione volesse concretamente significare), consapevoli, forse minimamente
partecipi, che non parlavano per paura: “Ecco
chi è Pacciani: un contadino scaltrissimo, perverso, uno che si è contornato –
questo l’abbiamo visto – di uomini come lui, vecchi, vecchi dentro, squallidi
sicuramente, tristi, che ha dominato come ha voluto. Compagni di merende.
Compagni che ha dominato come ha voluto e che oggi lo temono, con i quali ha
diviso sicuramente perversioni. Il quale ha sicuramente primeggiato in queste
sue perversioni, il quale ha sicuramente con le sue perversioni compiuto i
delitti che sappiamo”. Non mancarono comunque allusioni più puntuali: “Perché necessariamente pensare a due Ford
Fiesta identiche con persone diverse che vanno nello stesso luogo e non pensare
a sopralluoghi di… o visite alla piazzola di più persone? Quello che era vicino
alla macchina non era Pacciani, poteva essere un altro, io non voglio spingermi
nel vedere chi era quella persona. La descrizione fatta con quel viso incavato,
fatta dall’avvocato Zanetti, io non voglio pensare a chi potesse essere [14].
Non abbiamo elementi, se ce li avete voi sfruttateli: io non li ho, fra gli
amici di Pacciani se c’è qualcuno non mi interessa”. Mentre per il Faggi
adombrava un ruolo di basista a Calenzano, in forza della vicinanza della sua
abitazione al luogo del delitto, e di prestatore di auto dopo Scopeti, per
permettere all’assassino il viaggio fino a San Piero a Sieve, dove fu imbucata
la famosa missiva, diretta alla PM Della Monica e contenente il lembo di seno
della Mauriot: “Quindi che il racconto
del Longo sia vero, e quindi lo dobbiamo credere nel suo riconoscimento, è
pacifico. È un Longo che non costruisce un discorso che può aver sentito perché
nato in questo processo, da far collimare con ciò che diceva il Nesi. No: “Aveva
un’auto metallizzata tre volumi.” Cosa vi hanno detto i testi che sono stati
sentiti qua, i carabinieri? C’era, in questo processo, è emersa un’auto tre
volumi che lui ci aveva indicato come un modello tipo 131-132. Un’auto
metallizzata, un’Argenta. C’è un personaggio, un grande amico di Pacciani che
ha un’auto simile. È proprio il Faggi che ha un’auto di quelle esatte
caratteristiche in quel periodo, scura. Voi provate, io l’ho provato a vedere
com’è un’auto metallizzata la notte, come si vede illuminata dai fari, si vede
scuro. È un’auto che qualcuno ci vuol… ci dice che era lì. Allora noi senza
grosse difficoltà possiamo pensare, ipotizzare che si era fatto prestare la
macchina da qualcuno. (…) – il Faggi ne aveva una simile” .
Se il PM fu in fondo piuttosto cauto, il giudice
Ognibene nella sua sentenza si spinse molto più avanti nell’avallare l’ipotesi di
uno o più complici coadiutori e subalterni (“con
funzioni di appoggio e di ausilio”), non si sa bene con quali motivazioni,
dell’imputato. La prova certa dell’esistenza di complici non sarebbe derivata
dall’analisi delle scene del crimine, che mai permettevano di supporre
l’intervento di più assassini [15],
bensì dalla inequivoca testimonianza del Nesi Lorenzo; mentre si poteva pensare
che proprio quel complice sconosciuto intravisto nella Ford Fiesta avesse poi
affidato la sua auto a Pacciani per recarsi in tutta fretta a San Piero a Sieve
a imbucare il sanguinoso messaggio alla Della Monica, essendo così scorto e
identificato, su una vettura non sua, dal teste Longo. Infine, “in termini di certezza”, l’uomo visto
dal teste Zanetti in attesa appoggiato alla Ford Fiesta non poteva essere “altri se non
il complice, o
uno dei complici
del Pacciani nella organizzazione dei duplice delitto che
stava attendendo il rientro di costui,
e forse non
di lui solo”. Stabilito dunque, con passaggi
logici quanto meno arditi e un apparente rovesciamento di testimonianze che in
realtà, come abbiamo accennato, potevano più facilmente essere interpretate in
chiave innocentista, che Pacciani avesse goduto di complicità e aiuti nel
commettere, essendo comunque lui l’unico autore materiale, i duplici omicidi,
Ognibene affidava al PM il prosieguo delle indagini in tal senso [16],
non senza aver prima indicato come estremamente sospetti i due soggetti che
meno gli erano andati a genio nel corso del dibattimento, per lo “sfacciato mendacio” delle deposizioni, ovvero
Giovanni Faggi (del quale descriveva il “tipo di
rapporto, torbido, equivoco, circondato da un altissimo alone di
sospetto, che lo lega da tempo all'odierno imputato”) e Mario Vanni, legato
a Pacciani “da stretti vincoli di
frequentazione e di vizio.”
Se quindi l’ipotesi investigativa dei “Compagni di
merende”, alla fine parzialmente concretizzatasi in verità giudiziaria [17],
è quella che vede Pacciani agire e uccidere in concorso con altri suoi sodali
in posizione a lui subordinata, possiamo ben dire che essa nasce, un po’ per
caso, nel corso del processo del 94 e che la vera paternità di questa ipotesi è
da attribuire alla Corte d’Assise di Firenze presieduta dal giudice Enrico
Ognibene [18].
[1] Ne
abbiamo parlato ampiamente nel I volume dell’opera.
[2]
Per il periodo delle indagini su Pacciani ci si può riferire a Perugini,
Alessandri e soprattutto Cochi-Bruno-Cappelletti in bibliografia.
[3] Già
giudice a latere nel processo per violenza del 1988.
[4] La
Nazione 17 gennaio 1993.
[5]
Relazione introduttiva del PM – Udienza del 21 aprile 1994.
[6]
Udienza 13 giugno 1994: “non è un delitto
caratteristico di una cooperativa di mostri, (…) Il dato assolutamente
suggestivo del gruppo della setta satanica è stato ripetuto fino
all’estenuazione ma è un fatto sostanziale che questi sono delitti consumati da
una persona che ha in mente una particolare cosa, una certa fantasia e
difficilmente condivisibile da più persone”.
[7]
Per apprezzare appieno il clima in cui si svolse l’audizione di un Vanni
evidentemente confuso, poco lucido e intimorito, è utile, oltre alla lettura
dei verbali d’udienza, la visione del relativo filmato, registrato da RAITRE e
disponibile su alcuni canali Youtube.
[8]
Udienza dell’8 giugno. Il Nesi era già stato sentito in aula il 23 maggio,
senza però fare cenno dell’episodio.
[9]
Secondo la perizia medico-legale le vittime erano state uccise nettamente prima
della mezzanotte di domenica.
[10]
Aveva un negozio di foto-ottica e da lui si sarebbe servito il commissario
Perugini; questo secondo il difensore di Pacciani, avvocato Bevacqua; si veda
udienza del 14 luglio.
[11]
De Fazio – Galliani – Luberto, Indagine peritale sugli omicidi 1968-1984, nella
quale si esclude la possibilità che si tratti di delitti di gruppo o di coppia;
idea ampiamente confermata in dibattimento nell’udienza del 15 luglio 1994.
[12]
Il principio della colpevolezza “al di là di ogni ragionevole dubbio” è stato
inserito expressis verbis nel CPP
solo nel 2006, ma era di fatto già sussistente. Sull’interpretazione a senso
unico delle nuove emergenze dibattimentali, si veda il pamphlet di Francesco
Ferri “Il caso Pacciani”, del quale si parlerà nel Capitolo XX.
[13] Si
vedano gli articoli di Vittorio Monti sul Corriere della Sera.
[14]
Canessa stava probabilmente pensando a Mario Vanni. Senza ricordare però che la
fotografia di Vanni era apparsa su tutti i giornali dopo la sua deposizione,
quindi il teste Zanetti (che non aveva parlato di “viso incavato”, ma di un
“viso largo, ma di guance strette”) avrebbe potuto riconoscerlo senza troppa
difficoltà (come fecero, in effetti, i coniugi Rontini, vedi infra),
[15] “Se allora sulla scena dei delitti non
risalta in maniera obbiettiva l'intervento di eventuali complici, ciò, di per
sé solo, non implica affatto che essi,
uno o più,
non possano essere
stati presenti al momento
della commissione di
uno o di
più episodi criminosi. Se, infatti, come si è visto,
l'analisi della dinamica
materiale dei delitti non affatto incompatibile con la presenza e
l'agire della sola persona dell'assassino, bisogna
pur dire che,
inversamente, neppure sono emersi
elementi che possano
far escludere in via di principio la presenza, sul luogo dei
delitto o in luoghi viciniori, di possibili
complici del Pacciani,
con funzioni di
appoggio e di ausilio”. Anche se, in realtà, nella sentenza vengono
fatte alcune ipotesi sulla presenza attiva di un complice sia a Vicchio
(impronte di ginocchio sulla Panda) che a Scopeti (possibile utilizzo di due
diverse armi bianche).
[16] “Su tutto ciò non è la Corte ma il Pubblico
Ministero, al quale sono stati trasmessi i relativi atti, a potere e dovere
indagare ed inquisire al di fuori del presente processo”.
[17] Come è
noto, tre duplici omicidi sono a oggi rimasti senza colpevole.
[18]
Commenta Ferri amaramente, nel pamphlet succitato: “E questo palese errore si sta ancora scontando”.