Alle due di notte del 22 agosto 1968, il piccolo Natalino
Mele si alza in punta di piedi sullo scalino dinanzi al portone della casa di
via Vingone 154 a Sant’Angelo a Lecore e suona il campanello più in basso,
l’unico cui riesce ad arrivare. Quando l’inquilino dell’interno 1, Francesco De
Felice, casualmente sveglio, si affaccia alla finestra del suo appartamento, il
bambino gli dice: “Aprimi la porta che ho sonno e il babbo è a letto
malato… la mi’ mamma e lo zio sono morti
in macchina”.
Con queste parole inizia il caso criminale più misterioso e
complesso nella storia dell’Italia contemporanea.
[NOTA: si direbbe che l’interno 1 debba indicare un appartamento al piano terra, essendo anche il campanello posto più in basso, come vedremo in seguito. Stranamente, la moglie di De Felice, Maria Sorrentino, interrogata dal giudice istruttore, dirà che il marito andò a chiamare un vicino abitante al piano di sotto. Il maresciallo primo intervenuto, invece, più credibilmente scriverà che il vicino abitava al piano superiore. Già questo piccolo, insignificante dettaglio ci dà l’idea della cura con cui vennero svolte le indagini e compilati gli atti giudiziari.]
[NOTA: si direbbe che l’interno 1 debba indicare un appartamento al piano terra, essendo anche il campanello posto più in basso, come vedremo in seguito. Stranamente, la moglie di De Felice, Maria Sorrentino, interrogata dal giudice istruttore, dirà che il marito andò a chiamare un vicino abitante al piano di sotto. Il maresciallo primo intervenuto, invece, più credibilmente scriverà che il vicino abitava al piano superiore. Già questo piccolo, insignificante dettaglio ci dà l’idea della cura con cui vennero svolte le indagini e compilati gli atti giudiziari.]
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Foto scattata dall'autore nel 2013. E' visibile, sopra il portone, il lampione che già all'epoca doveva illuminare la facciata e che guidò Natalino nell'ultima parte del suo percorso notturno |
Il brigadiere dei carabinieri Matassino, in servizio al
Nucleo Investigativo di Firenze, nel suo rapporto giudiziario del 21 settembre
1968, prosegue il racconto, narrando come De Felice, il vicino Manetti e il carabiniere di piantone alla vicina
Stazione di San Piero a Ponti, in base alle indicazioni di Natalino,
giungono, dopo qualche giro vizioso e facendo
riferimento al cimitero, da cui il piccolo ricorda di essere passato, alla
stradina interpoderale che da via di Castelletti si inoltra nei campi in
direzione della via Pistoiese, dove essa attraversa Sant’Angelo a Lecore in
comune di Campi Bisenzio. La stradina, come verrà accertato in seguito, porta
dritta di fronte all’abitazione del signore De Felice, al n. 154 di via Vingone,
dopo un percorso di circa 2 chilometri e 300 metri quasi interamente
costeggiando il corso dell’omonimo torrente (in realtà più un fosso che corre
tra i comuni di Campi Bisenzio e Signa, fino a gettarsi nell’Ombrone).
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Foto scattata nell'estate 2013 |
A una distanza che verrà variamente descritta, ma che
dovrebbe trovarsi a circa 100 metri dall’incrocio, vi è un’auto Giulietta Alfa
Romeo, con accesa la luce di direzione destra; all’interno due cadaveri, la
madre del bimbo e l’amante, che lui chiama “zio”. Il carabiniere Giacomini, riconosciuto che
l’auto si trova in territorio di Signa, avverte il comandante di quella
tenenza, maresciallo maggiore Gaetano Ferrero, il quale si reca immediatamente
sul posto e compie un primo sopralluogo, identificando le vittime senza del
resto toccare nulla. E’ lui a darci la descrizione dell’auto per quanto
riguarda finestrini e portiere, che risultano tutti chiusi, ad eccezione della
portiera posteriore destra semiaperta e dei finestrini di sinistra, aperto per
tre centimetri quello anteriore, a metà quello posteriore. La vittima maschile
è Antonio Lo Bianco, muratore siciliano residente a Lastra a Signa,
identificato grazie a uno stato di famiglia rinvenuto nel cruscotto dell’auto;
non si dice, invece, come viene identificata la donna, Barbara Locci, madre di
Natalino, moglie di Stefano Mele, anch’ella abitante a Lastra a Signa. Poiché
all’apertura della portiera anteriore
destra viene notato un borsellino da donna, appoggiato sul pavimento tra
sedile e portiera e aperto, è probabile che vi si sia trovato un documento di
identità. Un particolare forse importante è che il Lo Bianco, semisdraiato sul
sedile di destra, calza solo la scarpa destra; la sinistra, infatti, si trova
appoggiata in bilico alla portiera anteriore sinistra, tanto che, quando il
maresciallo apre la portiera per controllare l’interno dell’auto, la scarpa
rotola a terra.
Riprendiamo la lettura di Matassino. Viene avvisato il
magistrato di turno: si tratta di Antonino Caponnetto, il futuro fondatore del
pool antimafia, all’epoca sostituto procuratore a Firenze; Caponnetto giunge
sul luogo del delitto intorno alle 6.30 in compagnia del tenente dei Carabinieri Olinto
dell’Amico. Il magistrato stende sul posto, con carta e penna, un primo verbale
di sopralluogo (documento pubblicato da Antonio Segnini e scaricabile qui); si tratta di due paginette scritte
a mano, apparentemente insignificanti, ma che per lo storico hanno
un’importanza rilevante, in quanto costituiscono il primo atto giudiziario
ufficiale della “indagine infinita” sui delitti del Mostro di Firenze. Caponnetto
dispone che vengano eseguiti innanzitutto, a cura dei carabinieri, rilievi
fotografici a documentare la scena del crimine, rinunciando a descriverla lui
stesso, evidentemente per brevità. Ciò purtroppo ci priva di una descrizione
immediata, poiché Ferrero scriverà il suo rapporto soltanto il 25 agosto; dobbiamo constatare che le foto a noi oggi
disponibili, pur essendo chiaramente scattate subito dopo l’intervento del
P.M., come dimostra il fatto che i cadaveri sono ancora all’interno dell’auto,
non coincidono con la descrizione fornita dal maresciallo. Mentre non abbiamo foto del
lato sinistro dell’autovettura, su quello destro il finestrino anteriore sembra
abbassato e quello posteriore alzato solo a metà; e non si vede perché i carabinieri
dovrebbero avere operato sui finestrini
prima dello scatto delle fotografie. Non siamo quindi del tutto certi
dei ricordi del maresciallo Ferrero [Nota: questa discrasia venne rilevata dal
P.M. Canessa in udienza – nel corso dell’esame del colonnello –allora tenente –
Dell’Amico, il 22 aprile 1994]; fortunatamente, i bossoli ritrovati sono sulla
fiancata sinistra dell’autovettura, ma questo non ci tranquillizza del tutto,
poiché lo stato dei finestrini di destra potrebbe avere un impatto sui
tentativi di ricostruzione.
Viene chiamato il medico condotto di Signa, dott. Ugo
Pratelli, per i primi rilievi medico-legali; fattogli prestare il giuramento di
rito, i cadaveri vengono deposti su due barelle e si procede a un esame
sommario dello stato dei corpi. Il testo è interessantissimo perché abbiamo,
per fortunata coincidenza, due foto della vittima maschile distesa sulla
barella, in posizione supina e poi prona. E’ esattamente la prospettiva e la
visione che ebbe, quella mattina, il medico Pratelli, il primo a esaminare i
cadaveri. Vale la pena di trascriverlo: “Il cadavere della donna (…) presenta
anteriormente due fori; uno sopra la mammella destra sul margine esternale
(sic) e uno a metà della linea xifo-ombelicale. Posteriormente si notano tre
fori: uno in corrispondenza della scapola sinistra e due nella regione lombare
sinistra. Il cadavere dell’uomo (…) presenta un foro nella regione ascellare
sinistra; uno nel III superiore posteriore del braccio sinistro; uno nella
regione arascapolare (sic) sinistra. Anteriormente presenta un foro al III
medio del braccio sinistro; uno al III superiore del braccio sinistro; uno al
III superiore dell’avambraccio sinistro. L’epoca della morte risale a circa 8
ore fa.” Le forme errate (esternale invece di sternale, arascapolare invece che
parascapolare) sono verosimilmente da imputare a cattiva comprensione da parte
di Caponnetto; pare di poter visivamente immaginare Pratelli che detta, mentre
esamina i corpi, e il magistrato che scrive, di getto, come testimoniano le
correzioni, e interpretando male i termini tecnici, il verbalino [Edit: A un migliore esame, la scrittura sembra quella del tenente Dell'Amico, che firma il verbale insieme al magistrato. Ci fu quindi, nell'esame dei corpi, una sorta di telefono senza fili da Pratelli a Dell'Amico a Caponnetto che giustifica gli errori di scrittura].
Il verbale si
conclude con la nota aggiuntiva che nello spostare i corpi sulle barelle si
ritrova un proiettile nella veste della Locci; “dalla parte della schiena”,
aggiungerà poi Matassino, che era anch'egli presente. Un altro proiettile era stato trovato sul pavimento
della vettura, dietro il sedile anteriore destro; e due bossoli calibro 22 al
di fuori, a sinistra dell’auto; verrà poi trovato un terzo bossolo all’interno
e ulteriori due all’interno dell’auto, “al di sotto del sedile posteriore, tra
la spalliera e il sedile vero e proprio”. Di questi vi è documentazione
fotografica, invero di difficile interpretazione.
In tutto, saranno solo cinque, quindi, i bossoli repertati, nonostante successive, ma inutili ricerche; bossoli che hanno sul fondello la lettera H (quindi inconfondibilmente un marchio di fabbrica della Winchester) come ci informa Matassino, che però, sbaglia clamorosamente attribuendoli alla ditta Fiocchi di Lecce, due errori in una frase. Ci vorrà la perizia balistica, stilata qualche mese dopo, per chiarire definitivamente la situazione.
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Foto dal blog "Quando sei con me il Mostro non c'è" di Antonio Segnini |
In tutto, saranno solo cinque, quindi, i bossoli repertati, nonostante successive, ma inutili ricerche; bossoli che hanno sul fondello la lettera H (quindi inconfondibilmente un marchio di fabbrica della Winchester) come ci informa Matassino, che però, sbaglia clamorosamente attribuendoli alla ditta Fiocchi di Lecce, due errori in una frase. Ci vorrà la perizia balistica, stilata qualche mese dopo, per chiarire definitivamente la situazione.
Abbiamo, nel verbale steso da Caponnetto, la prima
impressione che ricevettero gli inquirenti. Confrontiamo lo scritto con le
fotografie, traducendo in italiano corrente il medichese di Pratelli storpiato
da Caponnetto. Al Lo Bianco viene tolta la camicia e, forse, i pantaloni, che
aveva già abbassati in parte al momento dell’attacco; viene steso sulla
barella, in posizione supina. Pratelli individua, tutte a sinistra, una ferita
nella regione ascellare, una in quella che chiama parascapolare, una sul lato
posteriore del braccio, in alto. Girato il cadavere sulla schiena, si
evidenziano altre tre ferite, tutte tra braccio e avambraccio. In totale, sono
4 ferite al braccio, di cui una chiaramente trapassante, e due al torace. Al
cadavere non è stata tolta la canottiera, il che spiega perché il medico non
abbia visto le ulteriori ferite al torace; inoltre, almeno due ferite al
braccio si riveleranno doppie, due fori molto vicini che il dottor Pratelli
scambia per un’unica ferita. Anche se nel verbale non è scritto, una prima
logica conclusione è che i colpi di pistola diretti verso la VM siano stati
tre: due che hanno trapassato il braccio (4 fori) di cui una è entrata nel
torace + un colpo diretto al torace. Questa sarà la prima versione diffusa ai
giornalisti da qualcuno degli inquirenti
o dallo stesso medico.
Quanto alla donna, abbiamo foto solo relativamente all’autopsia (vedi infra); Pratelli comunque, oltre alle due evidenti ferite al torace anteriore, vede il colpo alla scapola e i due più bassi alla schiena e omette il colpo ricevuto alla spalla; è segno che il vestito, che era senza maniche, fu solo sollevato in alto e quella zona rimase coperta. Da qui, la conclusione, salvi i successivi rilievi autoptici, che le vittime fossero state attinte da tre colpi di arma da fuoco ciascuna: è la versione che uscirà sui quotidiani del 23 agosto, ovviamente riferendo gli accertamenti del giorno prima.
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Il Giorno 23 agosto 1968 |
Compiuti questi primi atti, i corpi vengono caricati su due
autofurgoni funebri e portati all’istituto di medicina legale dell’ospedale di
Careggi, per l’esecuzione, all’indomani, delle autopsie. Nel frattempo, il
maresciallo Funari, di Lastra a Signa, ha iniziato le indagini vere e proprie,
cercando il marito di Barbara, il suo amante ufficiale, Francesco Vinci, e i
parenti di Lo Bianco. Dell’attività investigativa svolta il giorno 22 chi
scrive non ha purtroppo che il riassunto contenuto nel rapporto Matassino e il
riassunto del riassunto, nella sentenza stesa dal giudice istruttore Rotella 21
anni dopo; tanto sarà il tempo necessario perché alcuni dei sospettati (si
tratta di Giovanni Mele, Piero Mucciarini, Marcello Chiaramonti, Salvatore
Vinci) vengano definitivamente prosciolti in sede di giustizia. Sappiamo che hanno luogo i primi interrogatori, prima del marito di Barbara, Stefano Mele, poi di
due suoi amanti, Francesco Vinci e Carmelo Cutrona, indicati dal Mele stesso.
Tutti e tre sono sottoposti alla prova del guanto di paraffina, che risulta
negativa solo per il Vinci.
La mattina dopo hanno luogo le autopsie delle vittime e più
o meno contemporaneamente viene incaricato di eseguire la perizia balistica il
col. Innocenzo Zuntini, in servizio al Comando di artiglieria di Firenze. Per
sfortunata coincidenza, le autopsie vengono assegnate a due medici diversi: il
dott. Massimo Graziuso esamina il corpo della vittima maschile, il dott. Biagio
Montalto quello della vittima femminile [Nota: entrambi verranno sentiti nel
corso del processo Pacciani, fornendo ricostruzioni assai poco chiare.
Fortunatamente, grazie all’avv. Adriani che li ha forniti e ad Antonio Segnini
che li ha pubblicati, possiamo leggere direttamente i verbali di autopsia]. Le
autopsie sono eseguite alla presenza della P.G. e del perito balistico, come
lui stesso riferisce nel suo scritto;secondo notizie giornalistiche (Corriere della Sera del 24
agosto) vi assiste lo stesso Dott. Caponnetto.
A questo punto, prima di procedere e venire al nocciolo
della questione, è necessaria una precisazione.
Quasi due anni fa (ottobre 2017) pubblicai, scrivendolo a
quattro mani con l’amico Claudio Ferri, Professore Ordinario di medicina
Interna all’Università dell’Aquila, un articolo sul delitto di Signa (qui e qui) nel quale
cercavamo di dimostrare, sulla base della documentazione allora disponibile,
che in quel duplice omicidio erano stati sparati sette colpi di arma da fuoco –
anziché otto secondo le risultanze peritali accolte in sede dei vari giudizi -; con
conseguente svalutazione della testimonianza (meglio, di una delle tante
versioni) del condannato Stefano Mele.
Devo dire che l’articolo ha avuto meno risonanza di quanto mi
aspettassi; in sostanza, si continua a sostenere da tutti e con assoluta
certezza che i proiettili furono otto.
All’epoca, le fonti dell’articolo furono: le deposizioni in
aula (processo Pacciani) dei due periti settori Biagio Montalto e Massimo
Graziuso per quanto riguardava le ferite ricevute dalle vittime; stralci della
perizia balistica Arcese – Iadevito per quanto attinente allo stato dei
proiettili reperiti; la ben nota perizia riassuntiva De Fazio per la scena del
crimine in generale. La nostra ipotesi,
necessitata dalla semplice e incontrovertibile constatazione che in questi
documenti vi era traccia soltanto di sette proiettili, era che il colpo che aveva trapassato
l’avambraccio sinistro della VM fosse lo stesso che aveva attinto la spalla
sinistra della VF, presupponendo che al momento degli spari i due fossero in
stretto contatto, anche senza poter determinare con certezza la posizione
reciproca e all’interno dell’abitacolo. Ciò faceva scendere il computo
balistico di 4 + 4 ferite a sette colpi di arma da fuoco, giacché un proiettile
poteva essere responsabile di aver attinto entrambi; con il felice risultato di
riportare in parità il predetto computo balistico, equiparando i presunti colpi
ai proiettili rinvenuti o comunque chiaramente individuati sulla base del conto
dei fori in entrata sui cadaveri. Riassumiamo infatti che:
la Locci aveva due proiettili ritenuti e due trapassanti;
Lo Bianco tre ferite in entrata nel torace senza corrispondente foro di uscita, quindi tre presunti proiettili, dei quali soltanto uno fu materialmente rinvenuto e due gli rimasero nel corpo;
un proiettile era sul pavimento dell’auto e uno nelle vesti della VF (corrispondenti ai due colpi trapassanti sulla stessa Locci);
quindi indubitabilmente sette e un eventuale ottavo colpo (ipoteticamente quello che aveva trapassato l’avambraccio della VM) doveva essersi misteriosamente volatilizzato all’interno dell’auto, perché – a giudicare dai documenti citati – non era rimasto all’interno dei corpi né poteva essere passato attraverso i finestrini di destra entrambi chiusi, come da verbale.
Dunque:
2 nel corpo della VF,
3 nel corpo della VM,
1 tra le vesti della donna,
1 sul pavimento dell’auto
= 7.
la Locci aveva due proiettili ritenuti e due trapassanti;
Lo Bianco tre ferite in entrata nel torace senza corrispondente foro di uscita, quindi tre presunti proiettili, dei quali soltanto uno fu materialmente rinvenuto e due gli rimasero nel corpo;
un proiettile era sul pavimento dell’auto e uno nelle vesti della VF (corrispondenti ai due colpi trapassanti sulla stessa Locci);
quindi indubitabilmente sette e un eventuale ottavo colpo (ipoteticamente quello che aveva trapassato l’avambraccio della VM) doveva essersi misteriosamente volatilizzato all’interno dell’auto, perché – a giudicare dai documenti citati – non era rimasto all’interno dei corpi né poteva essere passato attraverso i finestrini di destra entrambi chiusi, come da verbale.
Dunque:
2 nel corpo della VF,
3 nel corpo della VM,
1 tra le vesti della donna,
1 sul pavimento dell’auto
= 7.
Orbene, fatta questa premessa, veniamo al seguito. Circa un
anno dopo (ottobre 2018), Antonio Segnini ha pubblicato sul suo blog una
ricostruzione della dinamica del duplice omicidio di Signa che, come al solito,
brilla per l’assoluta ingegnosità con cui l’autore incastra pezzi
apparentemente discordanti; dirò subito che, pur ammirandone la meticolosità,
discordo dall’amico Antonio su un punto fondamentale, come si vedrà nel
seguito. Nel suo articolo Segnini criticava, probabilmente con ragione, un aspetto
della ricostruzione di Ferri e mia, portando a supporto nuova documentazione:
principalmente i verbali di autopsia
stilati il 23 agosto 1968, che ampiamente sostituivano, in meglio, le
sparse e confuse deposizioni rese al processo [Nota: ahimè, il verbale Montalto
manca di due pagine; e se la pag. 7 potrebbe essere poco rilevante, la pag. 9
contiene proprio gran parte delle risposte ai quesiti posti dal P.M.;
anche i verbali possono essere scaricati
qui]. Ammetto di averli letti, allora, con poca attenzione, dopo essermi
accertato che dalla descrizione dei corpi non c’era comunque traccia
dell’ottavo proiettile che andavo cercando. Chiedevo, a tal fine e per ulteriore documentazione, la perizia Zuntini 68, un documento quasi
leggendario tra i mostrologi, di cui si paventava addirittura la sparizione e
la sostituzione a fini di depistaggio, ma che, per notizie di riporto, sapevo
essere in mano di giornalisti e avvocati. Infine, molto recentemente, la
cortesia di un amico mi ha permesso di prendere visione del documento, ma non
di trarne copia e diffonderla ad altri, per motivi che sinceramente non
comprendo bene. Sta di fatto che ho potuto leggere e appuntare quanto mi
interessava, ma non sono in grado di pubblicare o riprodurre alcunché. Mi scuso
con i lettori, ben sapendo che il corretto metodo di critica storica non
dovrebbe funzionare così; ma tant’è, non posso fare altrimenti, quindi invito
chi è appassionato del caso ad accontentarsi
di quello che andrò a scrivere. Confido comunque che prima o poi
l’originale del documento sarà pubblicato integralmente, avendo ben altra
importanza soprattutto dal punto di
vista balistico; preciso, a scanso di equivoci e domande, che nella copia che ho visto non ci sono le
foto dei bossoli, posto che mai ci siano state.
Sulla base di quanto finalmente letto in Zuntini, riprendevo
in mano i verbali di autopsia, questa volta con maggiore interesse; rileggevo
per l’ennesima volta De Fazio e rimanevo, usando un understatement, sorpreso.
Vediamo perché, cominciando dalle risultanze autoptiche sulla Locci.
La perizia Montalto ci dà delle preziose indicazioni anche
prima di cominciare il vero e proprio esame del cadavere. Viene infatti
descritto in sufficiente dettaglio il vestiario della Locci: vestito senza
maniche, sottoveste, mutandine bianche “completamente intrise di sangue”;
reggiseno nero. Che le mutandine siano intrise di sangue fa pensare che le
indossasse al momento dell’attacco (ossia, non le vennero rimesse dopo, come
sostiene ad esempio Filastò). [Edit: non è questa l'unica soluzione possibile; si veda in proposito la discussione con il lettore Hazet nei commenti in fondo all'articolo] Il vestito ha un foro (il diametro indicato, di solo 2 mm.,
lascia però perplessi) nella regione posteriore-laterale sinistra; la posizione
precisa è rilevata dal perito incrociando le distanze da scollo, cerniera lampo
centrale e cucitura laterale. Sono dati che non siamo in grado di incrociare e
comunque con grande probabilità la veste era sollevata. Infatti, sulla
sottoveste troviamo tre fori anziché uno, corrispondenti senza dubbio alle tre
ferite ricevute in sede dorsale; con tutta probabilità la spalla era scoperta
(la foto del cadavere in auto, ancora vestito, è solo frontale, quindi non
abbiamo certezze) o il proiettile è passato attraverso la spallina del vestito
e il forellino non è stato rilevato. Quindi presumiamo mutandine e
sottoveste indossate in sede, mentre il
vestito, posteriormente, è alzato in parte (dal braccio dell’uomo?). Atteso che
due colpi sono trapassanti, dovremmo attenderci analoghi fori sulla parte
anteriore delle vesti, ma non viene riferito alcunché. Uno dei proiettili, in
effetti, è rimasto nelle pieghe della veste e verrà rinvenuto quando il corpo sarà
spostato sulla barella, cadendo a terra stranamente dal lato della schiena
anziché del ventre come dovrebbe essere. Non facciamoci però venire dubbi sulla
direzione dei colpi, perché il perito autoptico è su questo molto netto: i
colpi sul dorso sono in entrata, i fori sul torace anteriore in uscita; quindi
in seguito ai movimenti subiti dal cadavere post mortem il proiettile deve
essersi spostato. L’altro proiettile, probabilmente quello che, dopo aver leso
cuore e polmoni determinando la morte pressoché istantanea, esce in regione
mammaria destra, avrebbe dovuto forare la faccia anteriore di sottoveste e
vestito; o il piccolo foro non è stato rilevato o è anch’esso scivolato dal
corpo senza ledere il tessuto. Sembra, se la cronologia nei verbali è esatta,
che il proiettile, finito, come sappiamo, nella parte posteriore della vettura,
sia stato rinvenuto prima della rimozione dei cadaveri dall’auto; ciò significa
- se è lo stesso proiettile, e non si vede come possa non esserlo, altrimenti
non si capirebbe dove sia finito - che il proiettile è caduto già nel corso
della sparatoria o a causa di uno spostamento del corpo effettuato da qualcuno
prima dell’intervento delle FdO. Ma più verosimilmente e semplicemente il foro
corrispondente sul davanti dell’abito non venne rilevato, è probabile che fosse
al centro di un imbrattamento di sangue.
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Nonostante la cattiva qualità della foto, le macchie di sangue sono ben visibili |
Saltando un po’ in avanti, un altro
segno di un possibile spostamento immediatamente post mortem (oltre alla ben
nota catenina spezzata, di cui il perito non ci parla, ma soccorre Matassino)
potrebbe essere costituito dalle due piccole aree ecchimotiche su faccia
esterna e interna del gomito sinistro (punto 8 dell’esame esterno nel verbale
di Montalto). E’ come se qualcuno avesse afferrato il gomito della vittima
tirandolo con violenza (per rimetterla in posizione sul sedile sinistro?).
Passando ora all’esame esterno vero e proprio, la situazione
del cadavere della VF è la più semplice, anche perché l’autopsia Montalto è
resa in modo molto più chiaro e lineare rispetto a quella del collega. I tre
colpi che la Locci subisce alla schiena non ci danno particolari problemi in quanto due sono fuoriusciti, uno è rimasto
sottocutaneo e in tutti i casi possiamo ricostruire i tramiti che sono
leggermente dal basso verso l’alto e da sinistra verso destra: entrano sul lato
sinistro della schiena ed escono al centro (linea alba) o sul lato destro del
torace anteriore. Zuntini nella sua perizia dà degli angoli precisi, che
riporto: il colpo più in alto sulla schiena avrebbe angolo di 15° dal basso
verso l’alto e di 35° da sinistra verso destra; quello alla base dell’emitorace
sinistro di 10° dal basso verso l’alto e di 25°da sinistra verso destra; quello
in regione lombare sinistra di 25° dal basso verso l’alto e 30° da sinistra
verso destra. Non sappiamo se a queste misure il perito giunse sulla base di
propri appunti e proprie misurazioni, nel corso della stesura definitiva della
perizia, o dopo aver parlato in sede di autopsia con i medici, che a dire il
vero nei propri verbali non ne fanno cenno, né probabilmente era loro compito
farlo.
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Anche queste foto, che ritraggono il cadavere sul tavolo autoptico, sono tratte dal blog di Antonio Segnini |
Il colpo alla spalla è invece stato al centro di diverse
interpretazioni. Siamo cresciuti come mostrologi leggendo la perizia De Fazio
1984, il quale, riguardo alla VF di Signa, è molto netto: “In complesso
si individuano quattro
fori d'entrata tutti
al dorso, corrispondenti ad
altrettanti colpi d'arma da fuoco; diverse però le traiettorie, nel senso che
tre sono da sx. a dx. e una da dx. a sx.; tutti comunque dal basso verso l'alto
e, ovviamente, dall'indietro in avanti. Due proiettili sono fuoriusciti sulla
parete anteriore del torace e dell'addome; due proiettili sono rimasti ritenuti
(uno nel torace e l'altro nella spalla).
I tre tramiti da sx. a dx. sono stati tutti intratoracici e di essi uno
sicuramente mortale avendo provocato lesioni cardiovascolari. Il quarto, da dx.
a sx., ha interessato solo la
spalla sx. (ritenuto)”.
Quindi, a dire di De Fazio, avremmo un colpo alla spalla di direzionalità,
rispetto all’asse del corpo, diversa dagli altri, da dx a sx, mentre i colpi
che hanno raggiunto il torace e lo hanno completamente attraversato hanno
chiara direzione da sx a dx. Per questo, vari autori si sono affannati a
spiegare questa discordanza. Discordanza invero molto semplice da giustificare con un
movimento della vittima, giacché solo il colpo che colpisce il cuore è quello
immediatamente mortale e non è affatto detto che sia quello il primo; anzi, ci
sono degli indizi che la donna ebbe una reazione al momento dell’attacco. Da ultimo, Antonio Segnini, nell’articolo già
citato, ha ipotizzato che il colpo alla spalla sia uno dei due sparati “a cose
fatte” da Stefano Mele, dopo l’uccisione della moglie, insieme al misterioso e
mai trovato ottavo colpo. Se leggiamo l’autopsia Montalto, però, ci accorgiamo
che questo dato di una diversa direzionalità è assente. Riguardo alla
ferita alla spalla, infatti, il perito autoptico ci dice soltanto che essa “ha
maggior asse lievemente obliquo dal basso verso l’alto e da sinistra verso
destra”; e, nella sezione dell’arto superiore sinistro, riscontra che “alla
soluzione predetta fa seguito un tramite nel sottocute che si prolunga con un
semicanale a doccia sulla faccia posteriore della testa dell’omero con successiva
perforazione (…) della cavità glenoidea
e ritrovamento di un proiettile molto deformato situato in prossimità
dell’apofisi coracoide”. Il perito non
ha inserito uno specillo nella ferita o, se lo ha fatto, non lo scrive. Il
tramite nel corpo di questo colpo è molto breve, il verbale non indica esplicitamente
una direzione, ma la descrizione ci aiuta. Un proiettile che scava una doccia
sulla testa posteriore dell’omero, arriva nella cavità glenoidea, la perfora e
viene rinvenuto nei pressi del processo
coracoideo non può che avere una traiettoria leggermente da sinistra a destra: infatti,
guardando da dietro l’articolazione omero – scapola, la cavità glenoidea è a
destra dell’omero e il processo (o apofisi) coracoideo leggermente in alto a
destra. Quindi il medico legale documenta, senza dirlo a chiare lettere, una
direzione da sinistra a destra. Il colonnello Zuntini, a sua volta, parla di un
angolo di 30° da sinistra a destra e 20°da dietro verso l’avanti (espressione
quest’ultima che mi riesce di difficile comprensione in questo contesto, dove
ci si aspetterebbe dal basso verso l’alto o viceversa). L’angolazione calcolata
è del tutto analoga a quella degli altri tre colpi.
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Anatomia dell'articolazione omero-scapolare; in questo caso vista anteriore della scapola destra. |
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La linea tratteggiata indica il tramite sulla faccia posteriore della testa dell'omero |
Per quello che può valere, notiamo che, sentito in udienza
(22 aprile 1994), Montalto non parla mai di una diversa direzionalità del colpo
alla spalla, ma si limita a ripetere, genericamente, che i proiettili
colpiscono la metà sinistra del corpo e vengono da sinistra; segna anche le
direzioni con una penna, ma non si capisce esattamente per quali colpi. A
scanso di equivoci, rileggiamo una sua frase: “E sono risultati poi colpi quasi
tutti con un orientamento univoco, cioè dal basso verso l'alto, leggermente, e
da sinistra verso destra”. Quel “quasi” è il diavolo che ci mette la coda:
quasi tutti dal basso verso l’alto o quasi tutti da sinistra verso destra? O è
un “quasi” detto così, perché non li ricorda tutti a memoria?
Perché quindi De Fazio, unico specialista medico legale del
terzetto che operò la prima perizia riepilogativa nel 1984, scriva che il colpo
alla spalla aveva direzione opposta agli altri (destra-sinistra anziché
sinistra-destra), rimane abbastanza misterioso, a meno che la spiegazione non
si trovi nella pagina mancante del verbale di autopsia, nella quale il medico
darebbe ipoteticamente indicazioni diverse da quelle che si possono desumere
dalla descrizione della sezione dell’arto superiore sinistro. Però anche
Zuntini dà un particolare diverso per questo proiettile: lo descrive “con
direzione prevalente dall’alto verso il basso”, mentre gli altri tre sono
descritti dal basso verso l’alto, con tanto di angoli di incidenza. Può essere
che De Fazio abbia trasformato, erroneamente, la discordanza alto-basso (letta
comunque solo in Zuntini e non desumibile in Montalto) in una discordanza
destra – sinistra. Si tratta comunque di illazioni; guardando da dietro, il
processo coracoideo, si trova al di sopra della testa dell’omero, leggermente a
destra; quindi una traiettoria da sinistra a destra e dal basso in alto risulta
quella più probabile sulla base dei documenti ora disponibili. Si può avere
l’impressione che De Fazio non abbia studiato in maniera approfondita queste
autopsie, limitandosi a leggerne le conclusioni [Nota: ciò sarà più evidente
quando parleremo dell’autopsia Lo Bianco]. In questo senso, la mancanza della
pagina con le conclusioni del Dott. Montalto è veramente sfortunata.
Sulla base dei dati fin qui enumerati, mi sembra impossibile
proporre ricostruzioni o dinamiche di quello che veramente avvenne, se non
quella, assolutamente generica, che la Locci fu colpita da quattro colpi d’arma
da fuoco provenienti dal suo lato posteriore sinistro, sparati dalla fiancata
sinistra dell’auto; difficile decidere se da un finestrino solo o da entrambi.
Non conosciamo la posizione iniziale della donna al momento dell’attacco e di
quanto e come si sia spostata nel corso della sparatoria. L’indubbia traiettoria da sinistra a destra
dei colpi sparatile contro non è facile da giustificare, se non mettendo la
donna nella posizione che desideriamo rispetto al punto di sparo che abbiamo
soggettivamente scelto come più probabile; un esercizio di immaginazione dal
quale preferiamo astenerci. Qualche ulteriore considerazione e un confronto tra
le diverse ricostruzioni si potrà fare quando esamineremo l’autopsia Lo Bianco,
che è completa, ma purtroppo estremamente confusa. Vi sono forti indicazioni che al momento dell’attacco la donna ebbe una
reazione di terrore e di fuga, che può spiegare le traiettorie dal basso verso
l’alto (si sarebbe abbassata nel tentativo di sfuggire ai colpi). Anticipiamo
qualcosa che riguarda il Lo Bianco: la manica sinistra della sua camicia,
colpita da almeno tre proiettili, è totalmente staccata. Sarebbe il segno che qualcuno
ci si è aggrappato con violenza; possiamo ipotizzare che sia stata la donna all’inizio
della sparatoria. Se è così, si conferma che essa si trovava alla sinistra dell’uomo
e che non fu la prima ad essere mortalmente colpita. E’ anche probabile che il
cadavere, immediatamente dopo la morte, sia stato rimesso a forza sul sedile
anteriore sinistro, abbassandole il vestito, che era sollevato sulla schiena, e
strappandole la catenina. Vi fu quindi una manipolazione del corpo, ma molto
ridotta, ad opera quasi certamente dell’assassino; contrariamente a quanto
spesso si sente dire, il corpo non fu rivestito, in quanto era già vestito, a
parte le scarpe, soltanto con gli abiti in disordine, a causa, verosimilmente,
dell’inizio di un’attività erotica improvvisamente e tragicamente interrotta.
Di più non possiamo dire.
Ringrazio l’amico Prof. Claudio Ferri per avermi pazientemente
spiegato termini anatomici che non avevo mai sentito nominare e per la
collaborazione generale alla stesura dell’articolo; eventuali errori sono
soltanto miei.
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