El Commissari 'na mattina
el me manda a ciamà lì per lì:
"Noi siamo qui, non sente alcun-
el me diseva 'sto brutt terrun!
El me diseva - i tuoi compari
nui li pigliassimo senza di te...
ma se parlasse ti firmo accà
il tuo condono: la libertà!
Fesso sì tu se resti contento
d'essere solo chiuso qua ddentro..."
(Dalla canzone dialettale MA MI, testo di Giorgio
Strehler, 1963)
In questo articolo, che chiude idealmente la serie
iniziata più di tre anni fa con “Giancarlo Lotti, collaboratore di giustizia” (http://mostrodifirenzevolumei.blogspot.co.uk/2014/09/giancarlo-lotti-collaboratore-di.html
e seguenti) e proseguita più recentemente attraverso le analisi dei testi
algebrici Alfa (http://mostrodifirenzevolumei.blogspot.co.uk/2017/05/il-teste-alfa-1.html
e seguenti), Gamma (http://mostrodifirenzevolumei.blogspot.co.uk/2016/08/la-teste-gamma.html)
e Delta (http://mostrodifirenzevolumei.blogspot.co.uk/2016/09/il-teste-delta.html
), intendo parlare di quella che ritengo
la svolta decisiva nelle “seconde indagini” sul Mostro: la concessione a
Giancarlo Lotti delle speciali misure di protezione e la conseguente attribuzione
allo stesso dello status di “collaboratore di giustizia”.
La Nazione, 15 febbraio 1996 |
Teniamo a mente che siamo cronologicamente all’ 11 febbraio 1996, è appena avvenuto il confronto tra Pucci e Lotti di cui già abbiamo ampiamente trattato (si veda “Il teste Alfa” in questo stesso blog e la trascrizione integrale, preziosissima, nel volume “Al di là di ogni ragionevole dubbio”) e in un secondo interrogatorio (o meglio SIT), verbalizzato sinteticamente, Lotti, dopo che gli sono state lette le precedenti dichiarazioni di Pucci, ha ammesso di avere visto Pacciani e Vanni a Scopeti, senza sostanzialmente, però, aver fornito alcun altro dettaglio. Seguiamo, a riguardo, la ricostruzione di un testimone non sospetto di faziosità, il commissario Michele Giuttari, che nei suoi due volumi dedicati alla ricostruzione delle indagini da lui stesso condotte descrive la vicenda in questi termini:
<<Lo stesso 11 febbraio, a conclusione
dell’interrogatorio di Lotti, la Procura della Repubblica richiedeva al capo
della polizia l’applicazione di misure urgenti di protezione nei suoi
confronti. Successivamente [Nota: quanto
successivamente?], la stessa Procura avanzava, alla Commissione Centrale competente
ex art. 10 L. 82/1991, la proposta di ammissione allo speciale programma di
protezione nei riguardi dello stesso Lotti. Nella richiesta si sottolineava la
proficua collaborazione offerta dall’indagato, che aveva consentito di poter
ricostruire vari omicidi con dichiarazioni che avevano trovato supporto
probatorio anche nell’individuazione di luoghi e informazioni assunte da altre
persone. Il Lotti diventava formalmente collaboratore di giustizia, gestito
dall’apposito Servizio Centrale di Protezione, istituito presso la Direzione
Centrale della Polizia Criminale.>> (Compagni di sangue, pagg. 90-91,
1999)
Analoga narrazione nel successivo “Il Mostro, anatomia di
un’indagine”, 2006, nel quale Giuttari, a pag. 172, racconta:
<<Il verbale si chiude [Nota: è appunto il secondo verbale di Lotti in data 11 febbraio, ore
19,30]. Ma non l’attività dei magistrati, che preparano la richiesta (…) al
capo della polizia perché vengano applicate misure urgenti di protezione nei
confronti di Lotti. Il procuratore scrive che Lotti ha reso “informazioni assai
rilevanti per la ricostruzione dei delitti e l’individuazione degli autori”, e
che lo stesso “dimora in zona prossima a quella dove abita Vanni, è solo,
costretto a vivere in una canonica con extracomunitari e ha manifestato
preoccupazione per la propria incolumità”. Quella sera stessa un poliziotto
recapita la richiesta al Ministero dell’Interno.>>
Nel 2006, però, Giuttari sembra aver riflettuto sui reali
motivi delle misure di protezione richieste, si legge, infatti, nella pagina
successiva:
<<A ogni nuovo interrogatorio Fernando [Pucci] ha aggiunto una fetta in più
della storia, fino a giungere a quella ricostruzione che, per quanto ancora
forse incompleta, è sufficiente a incastrare sia Pacciani che il suo complice,
ormai individuato con certezza: Mario Vanni. Lotti è un'altra storia: nel
confronto ha finito per corroborare la versione di Pucci, ma è chiaro che l'ha
fatto solo perché messo di fronte a quest'ultimo. Spontaneamente non l'avrebbe
mai fatto. Mi chiedo perché, e mi chiedo se anche Vigna abbia i miei stessi
sospetti e le misure di protezione che ha richiesto non siano in realtà
soprattutto un modo di tenerlo sotto stretto controllo. Restano ancora molte
cose da chiarire, (...)>>
La Nazione 17 febbraio 1996 |
A questo punto è necessario un excursus su cosa fosse il programma speciale di protezione e a
quali vantaggi desse accesso la sua concessione nei confronti di un testimone o
di un indagato, come disciplinata dall’allora normativa vigente: la legge n. 82
del 15 marzo 1991. La legge 82/1991, legge di conversione del Decreto Legge n.8
del 15 gennaio 1991, fa parte del novero delle leggi penali premiali e ha subìto
alcune modifiche sia l’anno successivo ad opera del DL 306/92 (convertito con
legge 356/92) sia nel 2001, segnatamente
con la legge n. 45 del 13 febbraio 2001 che ha integrato la disciplina della
protezione e del trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la
giustizia con “disposizioni a favore delle persone che prestano testimonianza”.
In questa sede ci si soffermerà sulla normativa vigente al
tempo delle dichiarazioni di Lotti non solo come disciplinata nel Capo II della
legge in parola, rubricato, appunto, “Nuove
norme per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia” ma
anche con riferimento alle fonti regolamentari quali i decreti ministeriali
del 24 novembre 1994 finalizzati ad
individuare i criteri di formulazione del programma di protezione (si veda il
decreto n. 687 del 24 novembre 1994, cui
si accompagnò nella stessa data un decreto riservato del Ministero dell’interno
di concerto con quello di Grazia e Giustizia).
Le norme penali a carattere premiale sono relativamente
diffuse negli ordinamenti giuridici, si distinguono solitamente in norme di
carattere sostanziale, si pensi soprattutto nel nostro ordinamento
giuridico alla desistenza ex art. 56,
comma 3, al
recesso attivo ex art. 56 comma 4, o al pentimento
operoso ex art. 62 comma 6, norme di carattere processuale e norme di tipo
penitenziario, a seconda dei vantaggio che la legge dispone per i soggetti
destinatari di taluni benefici.
Nel nostro ordinamento giuridico norme speciali di diritto sostanziale che stabilivano riduzioni di pena
furono introdotte, a favore di dissociati, pentiti e collaboratori, sul finire
degli anni Settanta e per tutto il decennio successivo relativamente ai reati
di criminalità organizzata (terrorismo, eversione, mafia, sequestri di persona,
traffico di stupefacenti). Ad esempio, il DL 625/1979 di contrasto al
terrorismo stabilì forti riduzioni di pena per chi si fosse adoperato per
evitare che l’attività delittuosa fosse portata a conseguenze ulteriori o
aiutasse concretamente l’autorità di polizia e l’autorità giudiziaria nella
raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti
(art. 4). Una norma analoga è contenuta nell’art. 630 C.P. relativamente ai
sequestri di persona a scopo di lucro. Successivamente, poco prima
dell’approvazione del DL 8/91, la legge 26 giugno 1990, n. 162 per il contrasto
del traffico illecito di sostanze stupefacenti previde forti sconti di pena per
chi si fosse adoperato per assicurare le prove del reato (art. 14 comma 7). Nel
contempo veniva introdotta la possibilità di adottare misure di protezione per
garantire l’incolumità delle persone che, per effetto della loro collaborazione
nella lotta contro la mafia, risultassero esposte a grave pericolo di
ritorsione o vendette (art. 1 ter DL 329/82). Le norme sulla protezione ebbero
un’organizzazione sistematica proprio con il decreto legge qui in commento.
L’art. 9 del Decreto Legge 8/91, infatti, prevedeva
un’ampia platea di possibili destinatari, dilatando il parco delle fattispecie
di reato per le quali l'ordinamento prevedeva la possibilità di premiare una
condotta collaborativa, statuendo che <<nei confronti delle persone
esposte a grave e attuale pericolo per effetto della loro collaborazione o
delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari o del giudizio,
relativamente ai delitti previsti dall’art. 380 del CPP. [Nota: si tratta dei delitti per i quali è previsto l’arresto
obbligatorio in flagranza, per i quali la legge stabilisce la pena
dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e nel
massimo a venti anni; ma anche altri reati, non tipicamente associativi, come
il furto aggravato, la rapina e l’estorsione] possono essere adottate misure di protezione idonee ad assicurarne
l’incolumità, provvedendo, ove necessario, all’assistenza>> . Si noti
che questa norma estende la possibilità di applicare misure di protezione a una
pluralità di soggetti, ma come detto, queste misure di protezione “ordinarie”,
pur applicabili a casi particolari, già esistevano. La vera novità era apportata
dall’art. 10 del decreto, che introduceva, qualora le misure di tutela già
adottabili (ossia le cosiddette misure ordinarie di protezione) non fossero
ritenute adeguate, uno speciale
programma di protezione, comprendente, se necessario, anche misure di
assistenza.
Abbiamo dunque, allo stato del 1996, una protezione ordinaria che poteva essere
disposta da varie autorità di pubblica sicurezza (dall’Alto Commissario per il
coordinamento della lotta contro la delinquenza di tipo mafioso al Capo della
Polizia fino a livello amministrativamente più decentrato del questore) o
dall’Amministrazione penitenziaria (subordinata al Ministero di Grazia e
Giustizia) nel caso il soggetto da tutelare fosse ristretto in carcere; e un programma speciale di protezione, per
la definizione e concreta applicazione del quale venivano istituiti
rispettivamente una Commissione Centrale
e un Servizio Centrale di protezione,
incardinato nel Dipartimento della Pubblica Sicurezza. L’ammissione allo
speciale programma di protezione da parte della competente Commissione Centrale
avveniva su proposta del Procuratore della Repubblica (ex art. 12).
Torniamo per un attimo al caso Lotti e rileggiamo Giuttari.
Il responsabile del
GIDES ci dice che, lo stesso giorno
delle sue prime ammissioni (11 febbraio 1996), il procuratore Vigna richiese al
capo della Polizia (Ministero dell’Interno) l’adozione di misure di protezione urgenti,
ai sensi dell’art. 4 del DM 687/94 e successivamente, forse in coincidenza con
il passaggio del Lotti da persona informata dei fatti a indagato collaborante
(12 marzo 1996, dopo il sopralluogo a Vicchio), richiese l’ammissione allo
speciale programma di protezione. Ciò è confermato, oltre che dalla narrazione
di Giuttari, dalle evidenze di alcuni verbali di interrogatorio di persona
indagata, nei quali, a partire dal mese di aprile 1996, nell’indicare il
domicilio di Lotti compare la dicitura “attualmente abitante in luogo noto al
Servizio Centrale di Protezione”. Pare che Lotti fosse alloggiato in locali a
disposizione della Questura di Arezzo (un albergo?), probabilmente fin
dall’inizio della sua collaborazione; come dimostrerebbe il fatto che
l’articolista della Nazione, recatosi a San Casciano il 15 febbraio, dopo la
divulgazione dell’identità dei testimoni algebrici, riferisca che “Alfa e Beta sono spariti dalla circolazione
da domenica (ossia subito dopo l’interrogatorio e il confronto dell’ 11
febbraio)”. Infatti, l’art. 13 del DL 8/91 prevedeva la possibilità di
trasferire le persone in comuni diversi da quelli di residenza o in luoghi
protetti (anche in luoghi diversi dal carcere se arrestati; non era però il
caso di Lotti, che non fu mai sottoposto a misure cautelari). Quindi per adesso
abbiamo appurato che Lotti fu in un
primo momento un testimone protetto e poi un indagato collaborante, ammesso
allo speciale programma di protezione e gestito dal servizio centrale di
protezione.
Ma cosa prevedeva, oltre all’attività di tutela dell’incolumità
personale, questo speciale programma, almeno per quanto di pubblico dominio?
L’uso di documenti di copertura, il cambio di generalità ove necessario, ma
anche misure chiaramente premiali per quanto riguardava le modalità di esecuzione
della pena (art. 13 bis e 13 ter, relativi agli aspetti penitenziari del
programma di protezione), anche in deroga ai limiti imposti da altre norme
processuali e penali: lavoro all’esterno, concessione di permessi premio,
misure alternative alla detenzione (affidamento in prova ai servizi sociali,
semilibertà, detenzione domiciliare,
liberazione anticipata). Si trattava, dunque, di un bel pacchetto di
agevolazioni che, unite alla scarsa applicazione di fatto delle misure
cautelari poteva evitare al collaboratore di giustizia di finire in carcere prima,
durante e dopo il giudizio, nonostante al termine del giudizio gli fosse stata
comminata una pena detentiva.
Come si desume dalla relazione ministeriale sui programmi
di protezione relativa al I semestre 2001 (l’unica tra quelle da me consultate
che abbia numeri precisi), il numero dei collaboratori della giustizia in quel
semestre era di 456 liberi, di 192 (circa il 17%) ristretti in sezioni
specializzate di istituti penitenziari e di 461 sottoposti a misure alternative
alla detenzione. Quanto alle provvigioni per il mantenimento del collaboratore
(misure di assistenza economica), nulla di preciso si sa, se non della
concessione di un assegno di mantenimento di misura variabile, stabilito dalla
Commissione Centrale e dal Servizio di Protezione. Con la riforma del 2001 si
stabilì che l’assegno mensile non poteva essere superiore a cinque volte
l’importo che viene concesso dallo Stato a coloro i quali godono della
cosiddetta pensione sociale (art. 13 comma 6 della normativa attualmente in vigore).
Reputo estremo il caso del collaboratore mafioso, tale Balduccio di Maggio, che
nel dicembre del 1996 dichiarò alla Corte d’Appello di Caltanissetta che non
avrebbe testimoniato perché il servizio di protezione non gli aveva ancora dato
il mezzo miliardo di lire promesso, in aggiunta agli altri soldi che doveva
percepire (tratto dalla discussione parlamentare sul disegno di legge di
riforma, in Loris D’Ambrosio, Testimoni e
Collaboratori di giustizia, CEDAM, 2002). La legge non prevedeva invece
specifiche riduzioni quanto alla misura della pena, sia perché queste erano
previste da altre norme speciali sia perché, comunque, le misure alternative
alla detenzione previste, in deroga alle norme ordinarie, dall’allora art. 13
ter dovevano sembrare, e in effetti erano, un premio di per sé sufficiente.
Tuttavia, solo pochi mesi dopo il Decreto Legge 8/91 venne introdotta con il Decreto
Legge 13 maggio 1991 n. 152 (convertito
con L. 203/91) un’ulteriore novità, che all’articolo 8 comma 1 prevedeva
sostanziosi sconti di pena per i collaboratori della giustizia, ma solo
relativamente ai delitti di cui all’art. 416 bis del C.P. [Nota: associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone]. I mostrologi
avranno dimestichezza con questa norma in quanto fu il cavallo di battaglia
dell’avvocato Bertini nella sua difesa di Giancarlo Lotti, come abbiamo visto
nel post precedente; un cavallo sul quale però l’imputato non riuscì mai a
salire.
Non essendo previsto un provvedimento attributivo o
ricognitivo dello status di collaboratore di collaboratore di giustizia, tale
attributo era il più delle volte rilevabile dai fatti (ossia le dichiarazioni) accompagnati dall’ammissione al programma di protezione
[Nota: una possibile qualificazione si
ritrova all’interno dell’art. 58 ter dell’O.P. , Legge 26 luglio 1975, n. 354 -
introdotto dalla medesima L. 203/91 di cui sopra -, che ha appunto per rubrica
“persone che collaborano con la giustizia”, così definite: “coloro che, anche
dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l'attività delittuosa sia
portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno
aiutato concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella
raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per
l'individuazione o la cattura degli autori dei reati”]. Il
collaboratore, cioè, non perdeva per il fatto della collaborazione la qualità
di imputato, se parte nel processo, o di testimone assistito ove riferisse in
altri procedimenti penali che non lo riguardavano direttamente. La qualità di
collaboratore poteva comunque evincersi dai provvedimenti di Pubblica Sicurezza
con finalità di protezione o da atti giudiziari comunque dichiarativi
dell'attività prestata a favore della giustizia. Ma, è bene ripeterlo, nel
diritto positivo non esisteva un riconoscimento autonomo dei collaboratori di
giustizia che consentisse di attribuire loro, con un mero atto formale, tutti i
benefici di legge. Nella formulazione originale della legge, era ben possibile
che un soggetto coimputato, pur fornendo elementi giudizialmente utili, a
ragione dei quali fosse esposto a rappresaglie, tenesse tuttavia nascoste
porzioni rilevanti della sua conoscenza dei fatti [Nota: o perché intendesse effettivamente celarli o perché ritenesse di
poterli utilizzare in un secondo momento come merce di scambio, cosiddette
“dichiarazioni a rate”]. In tali casi, si interrogava la dottrina, pur
essendo corretto che lo stesso venisse sottoposto a misure di protezione, poteva
essere giusto che gli si attribuissero i vantaggi sostanziali, processuali e
penitenziari riconosciuti ai collaboratori con la giustizia? (Silvio D’Amico, Il collaboratore della giustizia, Laurus
Robuffo, 1995) Da parte mia, osservo che
quest’ultima ipotesi ben si attaglia, sia per quanto attiene le rivelazioni
progressive a distanza di tempo, sia per la mescolanza di verità (?) e
menzogne, al caso concreto di Giancarlo Lotti.
La Nazione 25 marzo 1996 |
In sostanza - e riassumendo - l’ammissione allo
speciale programma di protezione comportava per il collaborante una serie
articolata di concrete utilità (da Fabio Fiorentin, I benefici penitenziari per
i collaboratori di giustizia: alcune annotazioni alla luce della prima
applicazione della legge n.45/01, in Diritto & Diritti, 2003):
·
misure di protezione nei confronti propri e del
nucleo familiare;
·
sussidi economici;
·
accesso alle misure alternative alla detenzione a
prescindere dai limiti di pena, della pena già eventualmente scontata e dalla
natura e gravità dei delitti commessi;
·
non operatività delle preclusioni di cui agli
artt. 4 bis e 58 quater O.P. [Nota: esclusione, per i non collaboratori, dai
benefici di legge ordinari];
·
non necessarietà di un autonomo accertamento
giurisdizionale della qualità di collaboratore (...) ai fini dell’ammissione ai
benefici penitenziari.
Sottolineo un ultimo aspetto. Mentre, come risulta anche,
in chiave ermeneutica, dalla lettura degli atti parlamentari in occasione
dell’approvazione della legge di riforma,
i benefici penitenziari potevano essere attribuiti soltanto ai collaboratori di
giustizia che godevano dello speciale programma di protezione (come Lotti),
non è chiaro l’inverso, ossia se a tutti i collaboratori di giustizia ammessi
al programma spettassero poi automaticamente i benefici penitenziari.
Chi abbia la pazienza di leggersi questa normativa, nella
prima versione e in quella attuale (post 2001) al di là dei pochi cenni che ho
dato qui, si renderà conto che tutto l’impianto è improntato alla protezione e
alla premialità nei confronti dei collaboratori di giustizia (e loro familiari)
appartenenti alla grande criminalità (di stampo mafioso o eversivo) a carattere
associativo. A chi potrebbe essere utile, infatti, la permanenza in strutture penitenziarie
protette o il cambio di generalità se non a coloro che, “pentiti”, tradiscono
un’organizzazione in grado di trarre sanguinosa vendetta su loro stessi (gli
“infami”) e i loro congiunti? La riforma attuata con la legge 45/2001 ha
delimitato diversamente – e in senso restrittivo - il campo di applicazione,
eliminando il riferimento all’art. 380 del C.P. . Infatti, Il testo attuale
dell’art. 9 comma 2 ammette alla protezione le persone per le quali le misure
ordinarie non siano sufficienti e che <<versano in grave e attuale
pericolo per effetto di talune delle condotte di collaborazione aventi le
caratteristiche indicate nel comma 3 e tenute relativamente a delitti commessi
per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine costituzionale ovvero ricompresi
fra quelli di cui all'articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale
e agli articoli 600-bis, 600-ter, 600-quater anche se relativi al materiale
pornografico di cui all'articolo 600-quater.1, e 600-quinquies del codice
penale.>> E quanto al richiamato comma 3, esso precisa che <<ai
fini dell'applicazione delle speciali misure di protezione, assumono rilievo la
collaborazione o le dichiarazioni rese nel corso di un procedimento penale. La
collaborazione e le dichiarazioni predette devono avere carattere di intrinseca
attendibilità. Devono altresì avere carattere di novità o di completezza o per
altri elementi devono apparire di notevole importanza per lo sviluppo delle
indagini o ai fini del giudizio ovvero per
le attività di investigazione sulle connotazioni strutturali, le dotazioni di
armi, esplosivi o beni, le articolazioni e i collegamenti interni o
internazionali delle organizzazioni criminali di tipo mafioso o
terroristico-eversivo o sugli obiettivi, le finalità e le modalità operative di
dette organizzazioni>>. [Nota:
è discutibile se oggi Lotti potrebbe essere ugualmente protetto, in quanto
imputato per associazione a delinquere, art. 416 del C.P., che è uno dei
delitti ricompresi nell’art. 51 c. 3 bis del CPP, pur rispondendo difficilmente
ai criteri dettati dal comma 3. Ma lascio eventuali disquisizioni in merito ai
professionisti del diritto penale]
Per concludere questa parte più teorica, e inevitabilmente
pesante, una chicca. Compulsando le bibliografie in materia di pentiti e
collaboratori di giustizia, si rinviene un articolo a firma di Pierluigi Vigna,
contenuto nel volume “Chiamata in correità e psicologia del pentitismo nel
nuovo processo penale”, una raccolta di scritti a cura di Luisella De Cataldo
Neuburger, pubblicata da CEDAM nel 1992, ma chiaramente predisposta prima
dell’entrata in vigore del DL 8/91. Il contributo di Vigna si intitola “La
gestione giudiziaria del pentito: problemi deontologici, tecnici e
psicologici”; nonostante il titolo, non
si fa parola dei “problemi psicologici”, i problemi deontologici sono trattati
poco o niente ma l’articolo si sofferma
principalmente sugli aspetti tecnici della gestione giudiziaria dei
pentiti, anticipando chiaramente quelli che poi saranno i capisaldi del futuro
decreto-legge: proposta da parte del Procuratore della Repubblica, esame e
recepimento da parte di una Commissione collegiale da istituirsi, gestione e pratica
attuazione da parte di un apposito Servizio centrale. A leggere le sue pagine,
Vigna sembra propriamente essere stato uno degli ispiratori della legge.
E quindi, tornando a bomba, da quale pericolosa entità
criminale doveva essere protetto Lotti?
E’ quello che vedremo nella seconda parte.
(CONTINUA)
Bravo Frank.
RispondiEliminabel pezzo.
Riassumendo col sorriso assai acido sulle labbra, abbiamo quindi anche di che riflettere anche su:
*) ...Pucci (quello oligofrenico al 100%!!!) sarebbe quello che dà il là alle confessioni che ingenerano la collaborazione di Lotti e che pure poi gliele corrobora in aula
MA:
----> tadà, tadà! è al solo Lotti che gli danno protezione, stipendo, tetto, albergo, pappa, vinello bbbuono e status di collaboratore di giustizia.
oh poffarbacco! divertente, no!? :)
Ma come???!!!
E' lui che "collabora"!
E'lui che essendo "estraneo al sodalizio" (a differenza del lotti) è a rischio dal 1985 che gli facciano la pelle per far tacere uno scomodissimo "innnocente testimone" (ma non risulta alcun tentativo in tal senso contro di lui mai)!!!
Vabbè, no, nai, scherzo.
Al Pucci gli danno come premio quello di non affibiargli nemmeno una denuncia per complicità per Scopeti, nemmeno per 10 anni di reticenza :) :) :)
Eh, sì.
E' il guaio di essere ufficialmente certificato oligofrenici al 100%... in un aula di tribunale è roba che dà facile gioco alle difese se quello è il cavallo di battaglia.
Per fortuna che l'analfabeta ubriacone spiantato e derelitto Lotti, invece, una simile certificazione non ce l'aveva.
Hazet
Si può solo immaginare cosa provasse uno come Lotti a metà anni '90 dopo che gli amici di bevute erano ormai spariti dalla circolazione (Vanni andava ormai a letto prima dell'ora di cena!), con un lavoro, delle mogli e dei figli. Il senso di totale esclusione dalla società dove perfino i suoi compagni avevano trovato spazio. E intanto i soldi per le bollette non ci sono, i coinquilini parlano tra loro lingue a lui sconosciute, i problemi fisici si aggravano e lui non ha idea di come affrontarli.
RispondiEliminaNino Filastò, il 25 Maggio 1999, riporta passi importanti della perizia Fornari - Lagazzi:
"Egli infatti sa molto bene che è lui ad avere la situazione in pugno; ha capito molto bene cosa si attendono da lui i magistrati e i consulenti degli stessi.
(...)
Si coglie, inoltre, una completa assenza di empatia nei confronti delle vittime dei fatti, nonché, per quanto è stato possibile cogliere, dei consulenti e dello stesso personale del Servizio di Protezione: rispetto a queste
figure, infatti, a differenza di quanto spesso avviene in questi casi, il p. sembra mostrare soprattutto un atteggiamento di carattere “utilitaristico”, cercando l’impegno degli stessi rispetto a quanto gli occorre (eventuali cure, l’attenzione per la sua salute, esami medici, oppure l’essere accompagnato a pranzo ove desidera), ma non mostra nessuno spunto che superi una formale – anche se apparentemente deferente –
disponibilità e cortesia."
personalmente preferisco evitare un'interpretazione psicologistica del personaggio Lotti, che ritengo sia stato messo di fronte a un'alternativa molto netta: collaborare o finire dentro a far compagnia all'ex amico Vanni
EliminaFrank,
Eliminafondamentalmente sono d'accordo su quell'aut-aut (che nello spicciolo di quel concreto non poteva che avere che quel tenore).
PERO' resta sempre il retrogusto assai amaro del Pucci-input e della macchina-non-piu-circolante-non-usata-a-discolpa (per citar le due più evidenti).
Due retrogusti che non permettono di ridurre quel giochino ad un momentaneo personale contingente aut-aut.
Ma, anzi, che (purtroppo) concorrono ad inscriverlo in un giocone molto più grande (che andando a ritroso, imho, arriva fino agli scintillii di proiettili nella terra [ma anche ben prima, per questioni extra mostro e molto più politiche in senso stretto e lato... e sarà mica un caso che i due (lui e lei) più prossimi alla politica, siano anche quelli che chiusero alla pista sarda, eh!?]).
Ricordiamoci che la quota CDM (con tutti i suoi personaggi sia da tribunale sia investivativi) è robetta posticcia che arriva poi; solo poi; causa la non più sostenibile accusa sul nulla al comodo in quanto umanamente indifendibile Pacciani.
Stupisce poi allora così tanto la comparsa "puntuale" di un Pucci o di un Lotti, questo aut-aut o quell'aut-aut?
nulla è un isola. specie nel contorno ("politico") di quegli anni.
Hazet
Certo, però la perizia ci fornisce un indirizzo preciso su ciò che lui si aspettava dal Servizio di Protezione. Protezione non da terzi ma piuttosto copertura sanitaria eheh
RispondiEliminaUna cosa e' certa l'assassino delle coppiette non era un demente ubriacone qualunque,conosceva e seguiva le future vittime .Per esempio l'omicidio mainardi sul ciglio di una strada.. le ipotesi sono due ,o seguiva le coppiette oppure girava a vanvera fino a che gli si presentava l'occasione.Se fosse invece vero che la stessa arma dell'omicidio del sessantotto sia la stessa del 74 ecc.ecc. fino al 84,io non avrei dubbi che il mostro sia tra coloro che cercarono la pistola dove mele disse di averla gettata.
RispondiEliminaGentile anonimo, bisognerebbe prima essere certi che il mele abbia davvero gettato la pistola come raccontò in prima istanza - e poi mai più; cosa di cui dubito molto, senza ovviamente poterla escludere.
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