domenica 26 agosto 2018

Da Pietro Pacciani ai Compagni di merende


Il testo che segue è la bozza del primo Capitolo del nuovo volume dell'opera "Storia del Mostro di Firenze", che mi sono finalmente accinto a scrivere. Auguri, "in bocca al lupo", ma anche critiche motivate sono bene accetti.
Blogger non mantiene il link tra testo e note, quindi dovete fare un po' di bel su e giù.

Non si può parlare del caso dei Compagni di merende senza prima accennare a ciò che avvenne nel corso del processo di I grado a Pietro Pacciani: l’ipotesi investigativa che andiamo a trattare è infatti una superfetazione quasi involontaria della prima posizione adottata dalla Procura, di portare sul banco degli accusati, per tutti gli otto duplici omicidi attribuiti al Mostro di Firenze, il solo Pietro Pacciani. Del resto, per tutti i lunghi anni delle indagini, nel mentre avvenivano i delitti, vi era stata quasi unanimità di pareri, salvo qualche sporadica boutade giornalistica, sulla necessità di ricercare un serial killer unico, un lust murderer psicopatico affetto da una qualche perversione sessuale; e l’unico dubbio fondato poteva essere quello se attribuirgli o meno il duplice omicidio di Signa 1968, una valutazione che teneva anche conto di dover ammettere, in caso positivo, la commissione di un grave errore giudiziario nel processo contro Stefano Mele. La “pista sarda” testardamente seguita negli anni Ottanta derivava, d’altronde, anche dalla volontà di attenuazione del possibile errore: Mele era pur sempre colpevole, o quanto meno partecipe, ma in concorso con altri che poi per qualche motivo avevano continuato ad uccidere [1].
Pacciani, contadino di Mercatale Val di Pesa (in comune di San Casciano), originario di Vicchio del Mugello, con gravi precedenti (omicidio di un rivale in amore nel 1951, violenza carnale continuata nei confronti delle due figlie) era stato individuato come sospetto nel 1989, mentre si trovava in carcere. Dopo lunghe indagini condotte con grande impegno e spiegamento di mezzi dalla SAM (Squadra Anti Mostro) diretta dal commissario Ruggero Perugini, Pacciani, scarcerato nel dicembre 1991 per aver scontato la condanna per la violenza alle figlie, era stato nuovamente arrestato e sottoposto a custodia cautelare nel gennaio 1993, questa volta sospettato di quattordici omicidi [2]. Le indagini erano continuate  e esattamente un anno dopo (15 gennaio 1994), Pacciani era stato rinviato a giudizio, imputato ora anche per il delitto di Signa. Il processo in Corte d'Assise, presieduto dal giudice Enrico Ognibene [3], iniziò, nella massima attenzione degli organi di informazione locali e nazionali, il 19 aprile 1994. Bruna Bonini, madre di una delle prime vittime del Mostro (Stefania Pettini, uccisa a Borgo San Lorenzo nel 1974), aveva detto di non credere che venisse fatta giustizia, perché l’assassino non poteva aver fatto tutto da sé [4]. All’apertura del processo, invece, il rappresentante della Procura, il PM Canessa, che si occupava del caso ormai da dieci anni, era perfettamente convinto che Pacciani avesse fatto tutto da solo [5], in perfetta consonanze con l’ex capo della SAM Perugini [6]


Questa presunzione cominciò a vacillare quando, nell’udienza del 26 maggio, vennero chiamati a testimoniare due amici di Pacciani, il compaesano Mario Vanni, postino in pensione, e Giovanni Faggi, di Calenzano. L’atteggiamento di entrambi i testi fu considerato reticente. Vanni, subito dopo aver declinato le proprie generalità, si era premurato di chiarire di essere soltanto stato a fare delle merende con Pacciani; poiché la domanda del PM era tutt’altra e riguardava la sua professione, la risposta aveva creato ilarità nel pubblico e indignato il presidente, oltre a creare la locuzione, subito ripresa dalla stampa, “amici / compagni di merende”. Poiché tutto l’esame del Vanni da parte del PM si era svolto su questa falsariga di risposte evasive e non conseguenti, Canessa aveva adombrato la possibilità che il teste non parlasse per paura (ovviamente del Pacciani, che allo stato era in carcere, ma avrebbe pur sempre potuto uscirne alla conclusione del processo) e lo aveva apertamente minacciato di accusarlo formalmente per falsa testimonianza [7].
Quanto a Giovanni Faggi, aveva ammesso solo una superficiale e sporadica frequentazione del Pacciani, dovuta a motivi legati alla sua attività di rappresentante di piastrelle. In sostanza, lo avrebbe visto due volte in vita sua e gli aveva mandato una cartolina. Senonché, proprio nella stessa udienza, una teste aveva confermato di aver visto Faggi a San Casciano in compagnia di Pacciani e Vanni e anche, con qualche incertezza, alla Sambuca, essendo vicina di una presunta amante di Pacciani e Vanni. Cosicché anche la sua deposizione, ulteriormente incentrata sulla vicinanza della sua abitazione a Calenzano con il luogo del delitto delle Bartoline (22 ottobre 1981), oltre che, piuttosto impropriamente, sui suoi gusti in materia di sesso, aveva lasciato un’impressione di reticenza e di cose non dette.
Ma fino a questo punto si poteva pensare che si trattasse di amici più o meno intimi dell’imputato, che potevano aver intuito o saputo qualcosa dei suoi misfatti grazie alle comuni frequentazioni, ma si rifiutavano di parlare per non avere guai con la giustizia o, più probabilmente, nel timore di vendette. Il quadro però cambiò di botto quando Lorenzo Nesi, commerciante di San Casciano, amico di Vanni e conoscente di Pacciani, si presentò in tribunale a rivelare un elemento del tutto nuovo [8]. La sera dell’8 settembre 1985, tornando a San Casciano da una gita domenicale con amici sull’Appennino tosco-emiliano, aveva incrociato l’auto del Pacciani al crocevia tra via di Faltignano e via degli Scopeti, in orario compatibile con la commissione dell’omicidio. Il Nesi era il primo teste che affermasse di aver visto l’imputato in un tempo e luogo vicino a una scena del crimine; l’incrocio tra via di Faltignano e via degli Scopeti dista dal luogo del delitto circa 2 km ; quanto all’orario, il Nesi aveva parlato delle 23, un altro teste suo compagno di gita, aveva leggermente anticipato tra le 22 e le 22.30 [9]. La cosa più importante era però che il teste era sicuro di aver visto il Pacciani in compagnia di un altro uomo, non identificato. Quindi, se il Nesi aveva visto giusto identificando la Ford Fiesta del Pacciani, poco prima o poco dopo il delitto l’imputato era insieme a un accompagnatore non identificato, che nell’ipotesi accusatoria non poteva essere altri che un complice o quanto meno un aiutante.
Un altro colpo di scena si ebbe quando nell’udienza del 13 luglio si recò a testimoniare Ivo Longo [10], che riferì di essersi quasi scontrato con Pacciani sulla superstrada Siena –Firenze, poco dopo lo svincolo di San Casciano, intorno alla mezzanotte dell’8 settembre 1985. Il teste era sicuro di aver riconosciuto l’imputato per averlo guardato a lungo attraverso il finestrino aperto, giacché le auto avevano proceduto per un tratto affiancate e la luce dell’abitacolo dell’auto del Pacciani era accesa. La macchina vista dal teste, però, un’auto di media cilindrata a tre volumi di colore scuro, non poteva essere confusa con quella di Pacciani, una Ford Fiesta bianca con modanature rosse. Ne risultava, sempre che anche in questo caso il teste avesse avuto ragione, che, subito dopo il delitto, Pacciani, estremamente sudato e in stato di agitazione e quasi in trance, avrebbe imboccato l’Autopalio in direzione di Firenze, ma su un’auto che non era la sua.
Infine, il giorno successivo venne sentito, chiamato dalla difesa Pacciani, l’avvocato Giuseppe Zanetti. L’avvocato raccontò che nel mese di settembre 1985, prima della scoperta dell’omicidio (9 settembre) si allenava spesso con la bicicletta, dopo il lavoro, lungo via degli Scopeti e in più occasioni aveva visto ferma sul bordo della strada un’auto che poteva essere quella di Pacciani (Ford Fiesta chiara con sottile profilatura rossa lungo la fiancata); l’auto di solito era vuota, ma per due volte aveva scorto e osservato attentamente un uomo fermo accanto alla macchina, persona di cui poteva dare una descrizione molto precisa: “oltre il metro e settanta, presumibilmente intorno a un metro e settantacinque, robusta, un viso largo, ma di guance strette; la bocca molto carnosa, il naso tendente all'aquilino, ma non troppo, capelli sale e pepe, più sale che non pepe, e vestita, entrambe le volte, con un giubbotto di stoffa azzurro, carta da zucchero, più o meno, e un paio di pantaloni beige, beige chiari. Carnagione tendente allo scuro, insomma, leggermente olivastra”. Ma quello che al difensore importava di mettere in evidenza era che il teste non riconosceva assolutamente, nell’uomo da lui visto nove anni prima, l’imputato. L’intento della difesa, chiaramente, era di avanzare l’ipotesi che vi fosse qualcun altro in zona in possesso di un’auto del tutto simile a quella di Pacciani e che nei giorni precedenti il delitto aveva sorvegliato la zona della piazzola (anche se occorre dire che il teste non aveva collocato la misteriosa auto direttamente sotto la piazzola del delitto, ma in altre piazzole, stradine e slarghi limitrofi, ma non meglio identificati).
Quindi, si trattava di tre nuove testimonianze, non note all’apertura del processo, che indubbiamente complicavano il quadro indiziario iniziale: il soggetto non identificato visto dal Nesi a fianco di Pacciani sulla sua auto, era un complice? L’auto scura sulla quale Pacciani, sudato e stravolto, correva verso Firenze, gli era stata fornita da qualcuno, che, magari anche inconsapevolmente, lo aiutava ? L’uomo descritto da Zanetti accanto all’auto di Pacciani era una sorta di basista che sorvegliava la zona in preparazione del delitto?
 Naturalmente, un osservatore obiettivo avrebbe potuto facilmente interpretare i nuovi elementi a favore dell’imputato. Se Pacciani poco prima del delitto era in compagnia di un terzo e si stava, tra l’altro, allontanando dalla scena del crimine, era difficile credere che dopo una mezz’ora avrebbe potuto compiere la strage, atteso che i periti di Modena avevano affermato senza ombra di dubbio l’ipotesi di un unico autore dei reati [11]. Se un uomo molto assomigliante a Pacciani era stato visto subito dopo il delitto su un’auto di cui Pacciani mai aveva avuto la disponibilità, forse il soggetto visto, in fondo, non era l’imputato. Se un’auto molto simile a quella in uso a Pacciani era stata vista in prossimità del luogo del delitto, e accanto vi era un uomo che sicuramente non era Pacciani, forse vi era in giro, in quei giorni di settembre, una Ford Fiesta che non era quella dell’imputato. Elementi da valutare, che avrebbero potuto risvegliare nella Corte qualche ragionevole dubbio [12].
Come si sa, lo svolgimento del processo era capillarmente seguito dagli organi di informazione e i corrispondenti di alcuni grandi giornali nazionali accolsero con scetticismo e un po’ di ironia i nuovi testimoni che si facevano vivi dopo un decennio a esporre le proprie certezze [13]. Altrettanto naturalmente, invece, il PM Canessa fu pronto a utilizzare le testimonianze in senso favorevole all’accusa, stando però ben attento, con grande abilità, a non stravolgere l’impianto generale del processo che aveva puntato tutto su Pacciani come serial killer unico. Nella sua requisitoria finale (udienze 18-19 ottobre), Canessa prefigurava uno scenario di sordidi vizi e perversioni (voyeurismo, falli artificiali, violenze) messi in atto da uomini “vecchi dentro” (qualsiasi cosa questa espressione volesse concretamente significare), consapevoli, forse minimamente partecipi, che non parlavano per paura: “Ecco chi è Pacciani: un contadino scaltrissimo, perverso, uno che si è contornato – questo l’abbiamo visto – di uomini come lui, vecchi, vecchi dentro, squallidi sicuramente, tristi, che ha dominato come ha voluto. Compagni di merende. Compagni che ha dominato come ha voluto e che oggi lo temono, con i quali ha diviso sicuramente perversioni. Il quale ha sicuramente primeggiato in queste sue perversioni, il quale ha sicuramente con le sue perversioni compiuto i delitti che sappiamo”. Non mancarono comunque allusioni più puntuali: “Perché necessariamente pensare a due Ford Fiesta identiche con persone diverse che vanno nello stesso luogo e non pensare a sopralluoghi di… o visite alla piazzola di più persone? Quello che era vicino alla macchina non era Pacciani, poteva essere un altro, io non voglio spingermi nel vedere chi era quella persona. La descrizione fatta con quel viso incavato, fatta dall’avvocato Zanetti, io non voglio pensare a chi potesse essere [14]. Non abbiamo elementi, se ce li avete voi sfruttateli: io non li ho, fra gli amici di Pacciani se c’è qualcuno non mi interessa”. Mentre per il Faggi adombrava un ruolo di basista a Calenzano, in forza della vicinanza della sua abitazione al luogo del delitto, e di prestatore di auto dopo Scopeti, per permettere all’assassino il viaggio fino a San Piero a Sieve, dove fu imbucata la famosa missiva, diretta alla PM Della Monica e contenente il lembo di seno della Mauriot: “Quindi che il racconto del Longo sia vero, e quindi lo dobbiamo credere nel suo riconoscimento, è pacifico. È un Longo che non costruisce un discorso che può aver sentito perché nato in questo processo, da far collimare con ciò che diceva il Nesi. No: “Aveva un’auto metallizzata tre volumi.” Cosa vi hanno detto i testi che sono stati sentiti qua, i carabinieri? C’era, in questo processo, è emersa un’auto tre volumi che lui ci aveva indicato come un modello tipo 131-132. Un’auto metallizzata, un’Argenta. C’è un personaggio, un grande amico di Pacciani che ha un’auto simile. È proprio il Faggi che ha un’auto di quelle esatte caratteristiche in quel periodo, scura. Voi provate, io l’ho provato a vedere com’è un’auto metallizzata la notte, come si vede illuminata dai fari, si vede scuro. È un’auto che qualcuno ci vuol… ci dice che era lì. Allora noi senza grosse difficoltà possiamo pensare, ipotizzare che si era fatto prestare la macchina da qualcuno. (…) – il Faggi ne aveva una simile” .
Se il PM fu in fondo piuttosto cauto, il giudice Ognibene nella sua sentenza si spinse molto più avanti nell’avallare l’ipotesi di uno o più complici coadiutori e subalterni (“con funzioni di appoggio e di ausilio”), non si sa bene con quali motivazioni, dell’imputato. La prova certa dell’esistenza di complici non sarebbe derivata dall’analisi delle scene del crimine, che mai permettevano di supporre l’intervento di più assassini [15], bensì dalla inequivoca testimonianza del Nesi Lorenzo; mentre si poteva pensare che proprio quel complice sconosciuto intravisto nella Ford Fiesta avesse poi affidato la sua auto a Pacciani per recarsi in tutta fretta a San Piero a Sieve a imbucare il sanguinoso messaggio alla Della Monica, essendo così scorto e identificato, su una vettura non sua, dal teste Longo. Infine, “in termini di certezza”, l’uomo visto dal teste Zanetti in attesa appoggiato alla Ford Fiesta non poteva essere “altri se non  il  complice,  o  uno  dei  complici  del  Pacciani  nella organizzazione dei duplice delitto che stava attendendo il rientro di costui,  e  forse  non  di  lui  solo”. Stabilito dunque, con passaggi logici quanto meno arditi e un apparente rovesciamento di testimonianze che in realtà, come abbiamo accennato, potevano più facilmente essere interpretate in chiave innocentista, che Pacciani avesse goduto di complicità e aiuti nel commettere, essendo comunque lui l’unico autore materiale, i duplici omicidi, Ognibene affidava al PM il prosieguo delle indagini in tal senso [16], non senza aver prima indicato come estremamente sospetti i due soggetti che meno gli erano andati a genio nel corso del dibattimento, per lo “sfacciato mendacio” delle deposizioni, ovvero Giovanni Faggi (del quale descriveva il “tipo  di  rapporto, torbido, equivoco, circondato da un altissimo alone di sospetto, che lo lega da tempo all'odierno imputato”) e Mario Vanni, legato a Pacciani “da stretti vincoli di frequentazione e di vizio.”
Se quindi l’ipotesi investigativa dei “Compagni di merende”, alla fine parzialmente concretizzatasi in verità giudiziaria [17], è quella che vede Pacciani agire e uccidere in concorso con altri suoi sodali in posizione a lui subordinata, possiamo ben dire che essa nasce, un po’ per caso, nel corso del processo del 94 e che la vera paternità di questa ipotesi è da attribuire alla Corte d’Assise di Firenze presieduta dal giudice Enrico Ognibene [18].




[1] Ne abbiamo parlato ampiamente nel I volume dell’opera.
[2] Per il periodo delle indagini su Pacciani ci si può riferire a Perugini, Alessandri e soprattutto Cochi-Bruno-Cappelletti in bibliografia.
[3] Già giudice a latere nel processo per violenza del 1988.
[4] La Nazione 17 gennaio 1993.
[5] Relazione introduttiva del PM – Udienza del 21 aprile 1994.
[6] Udienza 13 giugno 1994: “non è un delitto caratteristico di una cooperativa di mostri, (…) Il dato assolutamente suggestivo del gruppo della setta satanica è stato ripetuto fino all’estenuazione ma è un fatto sostanziale che questi sono delitti consumati da una persona che ha in mente una particolare cosa, una certa fantasia e difficilmente condivisibile da più persone”.
[7] Per apprezzare appieno il clima in cui si svolse l’audizione di un Vanni evidentemente confuso, poco lucido e intimorito, è utile, oltre alla lettura dei verbali d’udienza, la visione del relativo filmato, registrato da RAITRE e disponibile su alcuni canali Youtube.
[8] Udienza dell’8 giugno. Il Nesi era già stato sentito in aula il 23 maggio, senza però fare cenno dell’episodio.
[9] Secondo la perizia medico-legale le vittime erano state uccise nettamente prima della mezzanotte di domenica.
[10] Aveva un negozio di foto-ottica e da lui si sarebbe servito il commissario Perugini; questo secondo il difensore di Pacciani, avvocato Bevacqua; si veda udienza del 14 luglio.
[11] De Fazio – Galliani – Luberto, Indagine peritale sugli omicidi 1968-1984, nella quale si esclude la possibilità che si tratti di delitti di gruppo o di coppia; idea ampiamente confermata in dibattimento nell’udienza del 15 luglio 1994.
[12] Il principio della colpevolezza “al di là di ogni ragionevole dubbio” è stato inserito expressis verbis nel CPP solo nel 2006, ma era di fatto già sussistente. Sull’interpretazione a senso unico delle nuove emergenze dibattimentali, si veda il pamphlet di Francesco Ferri “Il caso Pacciani”, del quale si parlerà nel Capitolo XX.
[13] Si vedano gli articoli di Vittorio Monti sul Corriere della Sera.
[14] Canessa stava probabilmente pensando a Mario Vanni. Senza ricordare però che la fotografia di Vanni era apparsa su tutti i giornali dopo la sua deposizione, quindi il teste Zanetti (che non aveva parlato di “viso incavato”, ma di un “viso largo, ma di guance strette”) avrebbe potuto riconoscerlo senza troppa difficoltà (come fecero, in effetti, i coniugi Rontini, vedi infra),
[15] “Se allora sulla scena dei delitti non risalta in maniera obbiettiva l'intervento di eventuali complici, ciò, di per sé solo, non implica affatto  che  essi,  uno  o  più,  non  possano  essere  stati  presenti  al momento  della  commissione  di  uno  o  di  più  episodi  criminosi. Se, infatti, come  si  è  visto,  l'analisi  della  dinamica  materiale  dei delitti non affatto incompatibile con la presenza e l'agire della sola  persona  dell'assassino,  bisogna  pur  dire  che,  inversamente, neppure  sono  emersi  elementi  che  possano  far  escludere  in  via  di principio la presenza, sul luogo dei delitto o in luoghi viciniori, di possibili  complici  del  Pacciani,  con  funzioni  di  appoggio  e  di ausilio”.  Anche se, in realtà, nella sentenza vengono fatte alcune ipotesi sulla presenza attiva di un complice sia a Vicchio (impronte di ginocchio sulla Panda) che a Scopeti (possibile utilizzo di due diverse armi bianche).
[16]Su tutto ciò non è la Corte ma il Pubblico Ministero, al quale sono stati trasmessi i relativi atti, a potere e dovere indagare ed inquisire al di fuori del presente processo”.
[17] Come è noto, tre duplici omicidi sono a oggi rimasti senza colpevole.
[18] Commenta Ferri amaramente, nel pamphlet succitato: “E questo palese errore si sta ancora scontando”.

venerdì 27 luglio 2018

Testimoni a Giogoli




Quanto aiutano le testimonianze nelle indagini sul caso del “Mostro di Firenze”?  Dipende, ovviamente; in primo luogo, se qualcuno ha davvero visto qualcosa; poi, dall’analisi critica cui le sottopongono gli inquirenti;  infine, nel nostro processo accusatorio, dalla vera o presunta utilità che una determinata testimonianza ha per le parti in causa.

Ci si potrebbero scrivere volumi. Per rimanere in un ambito più confacente a un blog, esaminerò qui il caso del duplice omicidio di Giogoli, stimolato anche da un ottimo articolo di Enea Oltremari, svolto in tutt'altra ottica e recentemente apparso su Insufficienza di Prove (http://insufficienzadiprove.blogspot.com/2018/07/luomo-dietro-il-mostro-8-di-e-oltremari.html ). 


Cominciamo dal luogo del delitto, praticamente a fianco del muro di cinta della Villa “La Sfacciata”, il cui ingresso principale è sulla via Volterrana (via di Giogoli porta a Scandicci, ma qui dovremmo, salvo errori, essere ancora in comune di Firenze). Il giovane studente Pier Luigi S., interrogato dai carabinieri il giorno 11 settembre, fornisce una testimonianza che di primo acchito potrebbe sembrare interessante. Riferisce infatti di aver visto, il giorno precedente, intorno alle ore 20.10, il furgone dei ragazzi tedeschi posteggiato e una coppia, uomo e donna, allontanarsi a piedi lungo via di Giogoli. Particolare curioso, è proprio Pier Luigi a indicare alla pattuglia dei carabinieri che sta sopraggiungendo dove sia via di Giogoli. Infatti
, il 10 settembre  a quell’ora i ragazzi erano morti da quasi un giorno, anzi Rolf Reinecke aveva da poco avvisato il nucleo dei CC di Firenze della sua macabra scoperta. Vista la coincidenza di orari, può anche essere che il teste abbia incrociato lo stesso Reinecke e la sua compagna. La testimonianza in sé, quindi, è di nessun aiuto. Il giovane dice però qualcosa che può essere importante:  “la zona è assiduamente frequentata da coppiette”. Non ci si dovrebbe stupire oltremodo, quindi, di trovare nei pressi del furgone, addossati a un muretto, postazione ideale per guardoni, frammenti di riviste pornografiche.






Il principale testimone “locale”, abitante in una dependance della villa, è però Rolf Reinecke, colui che scoprì il delitto. Lascio la parola al giudice Ognibene: “La sera del sabato 10 settembre 1983, giorno successivo alla commissione del delitto, mentre passava di lì in auto, si era fermato avvicinandosi al furgone: si era allora accorto che vi era un finestrino forato da una pallottola ed all'interno aveva scorto il corpo del ragazzo biondo macchiato di sangue. Il Rolf aveva raccontato che la sera prima, passando dallo stesso luogo, verso le 19/19,30, non aveva visto il furgone, la cui presenza aveva notato invece la mattina dopo: era anche sceso per parlare con i connazionali, anche perché dalla targa del mezzo gli erano sembrati della sua città, ma mentre si avvicinava, e stava per rivolgersi al ragazzo biondo che aveva visto appoggiato all'interno del furgone nella parte posteriore sinistra, era stato richiamato dal clacson dell'auto di un vicino che aveva trovato la stretta strada di Giogoli ostruita dalla sua auto lasciata in sosta (…)”

Quindi, sembrerebbe che i ragazzi si siano posteggiati nella piazzola di Giogoli non prima della sera del venerdì, dopo le 19; altrimenti, il Reinecke, come ne notò la presenza per due volte il sabato, l’avrebbe notata anche il venerdì e negli eventuali giorni precedenti.  Questo si accorda in parte con le dichiarazioni di un altro testimone, il metronotte Gian Pietro Salvadori, che – leggiamo in un articolo della Città del 12 settembre 1983 -  il mercoledì o il giovedì sera aveva visto il pulmino con i due ragazzi in via degli Scopeti, di fronte alle cantine Serristori, e li aveva fatti sloggiare perché in quel luogo vi era divieto di campeggio. E’ quindi una conferma della presenza, almeno da giovedì sera, dei tedeschi in zona San Casciano – Scandicci.  Ancora più importante, aggiunge il cronista, il teste "ha detto di aver inizialmente creduto che i due fossero in realtà un uomo e una donna, dal momento che uno dei due giovani aveva dei lunghi capelli biondi”.  Ci torneremo su.

Del resto, da un'annotazione della SAM alla Procura della Repubblica datata 12 giugno 1992, risulta che "il giovane Rüsch [NOTA: scrivo Rüsch anziché Rusch, come a verbale, perché il console tedesco, nel richiedere la restituzione degli oggetti delle vittime, usa questa grafia, che ritengo perciò più esatta], la sera del mercoledì antecedente la sua uccisione verso le 20 - 20,30 telefonò ai suoi familiari dalla città di SPESSART per riferire loro che erano arrivati lì e che il viaggio era andato bene. Va detto che i giovani erano partiti la mattina da Munster, dove entrambi avevano un appartamento in affitto ciascuno, città che dista circa quattro ore di viaggio da Spessart." In realtà, non esistono città di SPESSART in Germania, bensì portano questo nome due minuscoli paesini, il primo nella Valle del Reno, il secondo ai margini della Foresta Nera, e una regione turistica a sudest di Francoforte; in nessun caso quindi si potrebbe usare, per Spessart, il termine "città". Sono informazioni non di prima mano, fornite dalla polizia tedesca, perché il viaggio di Perugini in Germania risale all'ultima settimana di quel mese; inoltre, non avendo a disposizione il testo originale, penso si debba correggere la località di partenza da Munster (cittadina della Bassa Sassonia, nota solo per essere un centro di acquartieramento dell’esercito tedesco) a Münster, relativamente grande città universitaria del Nordrhein-Westfalen. Se prendiamo per buono il ricordo dei familiari, raccolto dopo quasi 9 anni dai fatti, ma in realtà disponibile già nel settembre 1983 tramite il console onorario tedesco a Firenze, i ragazzi erano partiti da Münster  il mercoledì mattina, ma avevano fatto ben poca strada (secondo il sito ViaMichelin Münster dista da Spessart  - quello sul Reno-  da 229 a 247 km, a seconda dei percorsi scelti). Se invece il riferimento fosse alla regione, ben più nota, saremmo intorno ai 340 km e circa quattro ore di viaggio. Ora, se si ricorda che, pochi giorni prima dell'informativa, a Pacciani era stato sequestrato un set di dodici cartoline illustrate dal titolo "Der Rhein", risulta chiaro perché gli investigatori optarono per un percorso lungo la valle del Reno e attraverso la Svizzera; ma non è sicuro che Meyer e Rüsch abbiano effettivamente fatto questo tragitto. Sia come sia, qualsiasi strada i due abbiano scelto, la sera di mercoledì erano ancora ben in mezzo alla Germania. Ora, da Spessart (il paesino sul Reno) a Firenze ci sono ben 1057 km; che si riducono a 915 partendo invece, ad esempio, da Miltenberg (nello Spessart) passando per l'Austria anziché per la Svizzera. Si può essere certi che il pulmino (non un mezzo particolarmente veloce anche in autostrada) non sia arrivato nei dintorni di Firenze prima della sera di giovedì 8; forse in quell'occasione i ragazzi furono intercettati dal metronotte Salvadori, che li fece sloggiare; via di Giogoli 4 dista circa 7 km da Villa Machiavelli, che dovrebbe essere il luogo di primo avvistamento del pulmino. 

La Città - 12 Settembre 1983



Che le vittime siano arrivate a Firenze solo verso la sera del giorno 8 sembra potersi dedurre anche  dall’unico tagliando ritrovato nel furgone, che attesta che nel pomeriggio di venerdì 9 il mezzo  venne posteggiato per un paio d’ore (16, 25 – 18,25) nel parcheggio di via Valfonda, a fianco della stazione di Santa Maria Novella.
 Allora, ci si dovrebbe chiedere chi e quando abbia visto la signora Teresina Buzzichini, testimone al processo Vanni + altri (udienza del 8 luglio 1997), la quale racconta che i ragazzi tedeschi uccisi in via di Giogoli pernottavano lì da circa una settimana. Citiamo alcuni passi, come sempre da Insufficienza di prove:

T. B.: E vedevamo questi ragazzi già da una settimana, che avevano questo pulmino. Non un camper, un pulmino qualsiasi insomma. La mattina, si vedeva la radio... si sentiva perlomeno la radio, presto e...

P.M.: Cioè, quando passavate dalla strada loro...

T.B.: Erano a pochi metri dalla strada.

(…)

P.M.: Ho capito. Andiamo un attimo a quando voi li sentivate nei giorni precedenti. Dice lei: 'era una settimana che li vedevamo'. Li vedevate la mattina, poi?

T.B.: Sì, la mattina, poi nel mezzo del giorno non c'erano e si rivedevano la sera, verso le otto, così. Lì, che stavano mangiando, insomma stavano... uno era normale, uno aveva i capelli lunghi e c'aveva un ciuffo di dietro, come li portano tutti i giovani ora. Logicamente era dell'83, comunque. Però l'aveva il pizzo, si vedeva che era un maschio. Magari di dietro...

P.M.: Si vedeva che era maschio anche se aveva i capelli lunghi, è questo che vuole...

T.B.: Anche i capelli lunghi. Perché aveva la barba, una donna credo...

P.M.: Ma lei li vedeva perché passavate di lì davanti, non è che vi fermavate?

T.B.: No, si sono fermati anche giù alla mia attività, hanno portato della roba a lavare [NOTA: la signora era proprietaria di una lavanderia al Galluzzo]. Però io non... erano normali clienti e basta.

P.M.: E ha riconosciuto che erano gli stessi per le figure, o per il pulmino?

T.B.: Sì, sì. Per il pulmino e per quello che portavano insomma me...

P.M.: Sì, ma come, mai è sicura che fossero loro, per la figura?

T.B.: Son sicura che fossero loro, sì, sì.

(…)

P.M.: Lei ricorda di questa macchina rossa qualcosa, o l'ha vista solo suo marito?

T.B.: No, l'ho vista anch'io, però lui ci stava più attento perché l'era più preso sulle macchine. A me le macchine non mi interessavano...

P.M.: Ecco. Suo marito all'epoca si presentò ai Carabinieri e disse addirittura...

T.B.: Il lunedì, sì.

P.M.: Sì. Disse addirittura che era una macchina di color rosso ma disse anche che macchina era.

T.B.: Era... Sì, disse anche che macchina era e che era anche targata Firenze. Che allora, se si stava un pochino attenti, praticamente non ce n'era centinaia di quelle macchine, si trovava subito. Se la cosa... l'è venuta fuori dopo... Io quando lo lessi sul giornali dissi, ma... Insomma, lasciamo perdere.

P.M.: Senta signora, a parte questa considerazione, lei

T.B.: No guardi, io le macchine proprio, gliel'ho detto prima.

P.M.: Fu suo marito a dirlo, l'ha riferito.

T.B.: Sì.

P.M.: Lei invece ha detto di aver visto un altro tipo di ma...

T.B.: Dopo... Il giorno dopo, una macchina chiara. Però poteva essere una Ford Fiesta, poteva essere una 127. Io lo dissi al mi' marito: 'guarda, un'altra macchina lì, Gianni, vicino a quel pulmino'. C'era una macchina che veniva in su da via Volterrana, lì, c'è pochi metri. E allora c'era una macchina, un operaio che veniva in su e dava, guardava quella macchina. Si girò così: 'davvero guarda, c'è un'altra macchina lì'. Proprio accanto al pulmino.

P.M.: Lei ricorda in che orario potesse essere?

T.B.: La mattina, l'ho detto, dalle sette alle sette e mezzo, che noi si andava via presto perché il mi' marito all'otto doveva essere sul lavoro.

P.M.: Quindi la macchina rossa fu vista di sera e la macchina bianca...

T.B.: No, di mattina.

P.M.: Tutte e due?

T.B.: Tutte e due di mattina.

(…)

T.B.: Lei ricorda se questi giovani... Ha detto di averli visti nella lavanderia da lei. Li ha visti anche per caso alla Coop giù al Galluzzo?

T.B.: Sì, sono stati anche alla Coop perché venivano con delle borse della Coop, sì.

P.M.: Ecco, lei... Ah, ecco, ha visto...

T.B.: Sì.

Quindi addirittura la teste ha visto le vittime tornare dalla spesa e venire nella sua lavanderia; ha visto un giovane con il pizzo, ma dalle foto disponibili non sono visibili segni di barba; il metronotte aveva invece scambiato Jens-Uwe per una ragazza. Si tratta molto probabilmente quindi di un falso ricordo; eppure, come è suggestivo quell’accenno alla rarità del tipo di auto (non ce n'era centinaia di quelle macchine), che ben si attaglierebbe a una 128 coupé, molto meno a una 128 berlina, un modello estremamente diffuso. I difensori, stranamente, non controinterrogarono; è anche vero che la testimonianza della signora non venne utilizzata in sentenza. Ma per rimanere ai fatti concreti, andiamo a leggere la dichiarazione, più modesta ma ben più circostanziata del marito della signora Teresina, Giovanni Nenci, rilasciata già il 13 settembre  1983 ai CC della Stazione del Galluzzo.

Giovedì sera 8 c.m. nel rientrare a casa notai nello spiazzo di cui sopra il furgone straniero regolarmente parcheggiato nello spiazzo. Erano circa le ore 20,30 ed accanto al furgone non notai movimento di sorta. Il mattino transitai nuovamente in via di Giogoli verso le ore 7,30 e notai accanto al furgone in parola un’auto Fiat 128 di color rosso, targata FIRENZE. Non vidi movimento di sorta intorno e pensai a persone che provavano i cani per la caccia. Anche venerdì 9 c.m, nel transitare verso le ore 20,30 in via di Giogoli, notai nuovamente il furgone in sosta nel prato adiacente alla via stessa, senza notare intorno nessun movimento di persone. Il giorno successivo passai ancora in via di Gíogoli a bordo della mia auto ed in compagnia di mia moglie. Notai sempre lo stesso furgone, con le portiere chiuse, fermo nel luogo visto la sera precedente. Erano circa le ore 7-7,30 e mia moglie mi ha riferito che accanto vi era una auto bianca di media cilindrata di cui però non ricorda né la marca e né tantomeno rilevò particolare, e targa".

La FIAT 128 rossa vista dal teste era la 128 coupé di Lotti? Quella macchina, quando fu acquistata (16 febbraio 1983), era targata Gorizia, non sono riuscito ad appurare in quale data fu ritargata FI D56735.



Leggiamo allora, a proposito di auto (il grimaldello dell’inchiesta Compagni di Merende) uno stralcio dell’intercettazione telefonica Lotti – Nicoletti 24 marzo 1996 (pubblicata in Al di là di ogni ragionevole dubbio, pag. 171 e segg.).

Giancarlo Lotti: ‘Poi mi vogliano domanda’ le cose dell’83, dell’82 . . .  come fo  a sapere queste cose?” (…)

Giancarlo Lotti: “Ma poi gli hanno visto una macchina, dice, a Scandicci, a Giogoli. E  io che ne so? Per l’appunto la mi’ macchina l’è da tutte le partì. Io se vo a trovare una cugina, io un lo so. Loro dice.. .  lì a Giogoli c’era un furgone, dice,  quei du’ tedeschi...  ”

Filippa Nicoletti: “Ah. ”

Giancarlo Lotti: “Ma come fo a dire una cosa che un n’ho vista?”

Filippa Nicoletti: “Eh ma tu . .. gli dici che non l ’hai visto. ”

Giancarlo Lotti: “Dice: ‘ma te tu vai dalla tu cugina.’ E  questo i ’ che vuol dire? Perché dalla mi’ cugina un ci posso andare?”

 ( . . . )

Il verbale dell’interrogatorio subito da Lotti il giorno precedente, al quale è riferimento nella telefonata, si può consultare tra i materiali pubblicati da Antonio Segnini  ( http://quattrocosesulmostro.blogspot.com/p/contenuti-scaricabili.html  ). Purtroppo la trascrizione non è completa; in quello che si legge, non si parla mai di Giogoli, di auto o di cugine; molto probabilmente si tratta di “sondaggi” del teste fatti fuori verbale (non sarebbe l’unico caso). Ma il fatto che Lotti stava per essere nuovamente “incastrato” a causa della sua auto (meglio: un’auto simile alla sua) vista nei paraggi (come a Scopeti, come a Vicchio) risulta chiaramente dal dialogo telefonico con la Nicoletti.

Nell’interrogatorio del  successivo 26 aprile, infatti, Lotti ammetterà per la prima volta (ma era stato anticipato da Pucci il 18 aprile) la sua partecipazione al delitto di Giogoli, anche se, in questa versione, solo in veste di spettatore invitato.

Nel corso del sopralluogo del 23 dicembre 1996, poi, Lotti dirà che sia Pacciani sia lui stesso parcheggiarono lungo via di Giogoli, a una ventina di metri l'uno dall'altro. Tutto è possibile, certo è che le auto avrebbero bloccato la strada, in quel punto assai stretta, e un eventuale automobilista di passaggio si sarebbe trovato impossibilitato a proseguire e sarebbe stato involontario testimone di tutta la sparatoria. Ma questa è solo una delle tante inverosimiglianze dei racconti di Lotti. 


E Pacciani? Poteva essere sua l'auto bianca (la famosa Fiesta con le modanature laterali rosse) vista la mattina dopo l'omicidio da Teresina Buzzichini? Certamente, anche se non si capisce cosa ci stesse a fare. Più probabilmente si trattava invece della 126 bianca, vista tra le 9 - 9,30 del sabato dalla guardia giurata Menichetti e che fu poi attribuita a Mario Robert Parker (si veda sentenza Calamandrei). Quanto a Pacciani, nell'ipotesi accusatoria, si era recato sul posto in motorino, appoggiandolo all'interno del viale d'ingresso della villa (testi Amelia De Giorgio, udienza del 1 giugno 1994, e Adriana Sbraci, udienza del 7 giugno 1994) o proprio contro il muretto della piazzola (teste Attilio Pratesi, udienza 13 luglio 1994). Dobbiamo quindi immaginarci il Vampa che per più volte, in pieno giorno, si reca sul posto a osservare… il nulla, poiché le vittime erano ancora in Germania. Ma non solo; il proprio motorino Pacciani lo avrebbe lasciato lì per giorni anche dopo aver commesso il delitto (teste Orlando Celli, udienza del 1 giugno 1994). Sembra che solo la polizia scientifica in sede di sopralluogo non si sia accorta della presenza del motorino … Il teste Celli vide anche un uomo che si avvicinava al pulmino e a fianco un’auto che poteva essere una Mini (come quella in uso al Reinecke), verso le ore 8 del sabato mattina. Fu interrogato due volte (nel 1983 e poi nel 1992), ma non ho i verbali e la deposizione a processo è, more solito, confusa e inconcludente. 


Un'altra testimonianza che fu valutata in sede di indagine fu quella di Laura S. (verbale dell’11 settembre reso ai CC della Stazione di Scandicci), la quale riferì che, “verso le ore 21,00-21,15 del 9 settembre 1983, percorrendo  in  autovettura  la  parallela  e sottostante  via  del  Vingone,  ha  potuto  distinguere  sotto  i  fari  un  individuo  scendere, proveniente  verosimilmente  dalla  zona  del  delitto,  un  uomo  dall'età  di  40-45  anni, dall'altezza di  circa mt. 1,70, indossante una maglietta celeste con delle strisce rosso orizzontali, pantaloni scuri, capelli folti, lisci e tirati indietro” (vedi “Rapporto Torrisi”). Prosegue la teste dicendo che l’uomo aveva: “faccia grossa, espressione regolare, senza avere nulla nelle mani. Quello che mi è rimasto impresso maggiormente sono stati i capelli lisci e tirati indietro, scuri, sembravano come fossero stati trattati con brillantina, cioè molto lucidi. (…) Preciso di non aver notato nessuna auto in sosta nei pressi del punto ove si trovava fermo l’uomo a mio avviso sospetto, e cioè scendere (sic) da un piccolo viottolino della campagna o dai cespugli, sulla sinistra. (…) Vestiva come una persona normale di città, con pantaloni e maglietta. I pantaloni regolari, non sportivi, con cintura”. Questa testimonianza sembra più interessante, quanto meno perché riferita a un orario vagamente compatibile con l’omicidio. Non vale neppure la pena di aggiungere che per Torrisi l’uomo con la maglietta a strisce e i capelli brillantinati tirati indietro era senza dubbio Salvatore Vinci. Ma a parte questo, per chi, come chi scrive, si permette di trovare piuttosto inverosimili le ricostruzioni fornite dal Lotti di tutti gli omicidi ai quali avrebbe partecipato (gli assassini arrivano direttamente sul posto con due auto, parcheggiano tranquillamente di fronte alle vittime e danno inizio alla mattanza), l’ipotesi di un colpevole che si allontana di nascosto percorrendo un tratto a piedi nel bosco o per i campi appare senza dubbio più credibile; e in effetti, dal retro della piazzola si arriva facilmente, attraverso un campo in discesa non troppo forte, alla via sottostante.


Salvatore Vinci - Foto da Insufficienza di Prove





Ricapitolando, i ragazzi partirono da Münster la mattina di mercoledì 7 settembre, pernottarono in una località turistica della Germania meridionale, arrivarono nei dintorni di Firenze probabilmente la sera di giovedì 8. Fecero un primo tentativo di posteggio in via degli Scopeti, furono mandati via e arrivarono a Giogoli piuttosto tardi, senza essere avvistati da nessuno se non la mattina dopo quando furono notati dal teste Nenci. Andarono via (il teste Pratesi alle 11.30 non vede più il pulmino), passarono la giornata a Firenze e dintorni, tornarono a pernottare (dopo le 19.30, Reinecke tornando a casa non li vede ancora) sulla via di Giogoli e la mattina dopo erano morti. Un iter che, tutto considerato, si avvicina molto alla vicenda dei turisti francesi che saranno uccisi, quasi esattamente due anni dopo, a San Casciano proprio in via degli Scopeti. Un passaggio velocissimo che si conclude con la morte violenta. Un passaggio che lascia ben poco spazio a fantasiose ipotesi di caccia a presunti omosessuali, a preparazioni di riviste gay da sistemare a mo’ di altarino o di un assassinio premeditato “per far sortire qualcuno dal carcere” (Santoni Franchetti, si veda qui: https://appuntisulmostro.blogspot.com/2018/02/golden-gay.html ; ma anche la Notte di Golden Gay del grande De Gothia). Nessun testimone sembra essersi accorto di loro nell’orario cruciale, dalle 21 alle 24 di venerdì; solo un automobilista di passaggio poco dopo le 22.30 riferisce, ma in forma dubitativa, di aver notato il furgone in sosta, con le luci spente. Considerato che molto probabilmente il Meyer stava leggendo quando venne attinto dai primi colpi, dobbiamo presumere con la luce interna accesa, è molto probabile che a quell'ora il delitto fosse già avvenuto.


A quale conclusione possiamo arrivare, dopo questa raccolta di testimonianze sul delitto di Giogoli (ce ne sono senza dubbio altre, che ho tralasciato perché non le conosco; ogni aggiunta è naturalmente benvenuta)?

In primo luogo, dobbiamo arrivare alla constatazione che è meglio non fidarsi troppo dei testimoni oculari; è un punto sul quale, in questo blog, ho già battuto ripetutamente. Secondariamente, possiamo osservare che, individuato un possibile colpevole, una testimonianza vagamente adattabile si trova sempre. Così, abbiamo visto  comparire sulla scena l’auto di Reinecke, quella del Lotti, quella di Mario Robert Parker, Pacciani sul suo scalcagnato motorino Beta e infine anche Salvatore Vinci (testimonianza questa di Laura S. che è comunque la più cronologicamente vicina alla presunta ora del delitto, mentre le altre veramente dicono poco o nulla). Forse, allora, nessuno ha visto niente di significativo; forse davvero, come mi disse anni fa uno dei massimi mostrologi viventi, non c’è niente in quelle carte…
La Città - 14 settembre 1983