lunedì 18 agosto 2014

Ancora su Signa (4)



Quando, dopo il delitto di Vicchio, fu chiaro che i due cognati non potevano essere, come si era sperato, il doppio "Mostro di Firenze", fu il turno di Salvatore Vinci ad entrare nell'occhio del ciclone, più quale ultima risorsa della pista sarda che per le effettive risultanze d'indagine. Stefano Mele è come di consueto pronto ad assecondare gli investigatori, chiamando in correità Salvatore quale deus ex machina del duplice omicidio, con la semplice, ma efficace constatazione: "era più marito lui di me". Il racconto è dettagliato, ma sembra carente proprio per quanto riguarda l'organizzazione del delitto (cui forse, suppone Torrisi, non ha neppure partecipato), limitandosi il Mele a dire che l'arma era stata fornita da Salvatore dietro pagamento di 400.000 lire (sarebbero così stati spesi i famosi soldi dell'assicurazione) e per il resto: "Dice che loro tre si sono messi d’accordo e che per far venire suo fratello è andato a Casellina dove abitava con Piero. Aggiunge che la scelta è caduta sul 21 per ragioni di ferie e di precostituzione dell’alibi. E’ quello il giorno che torna utile, anche perché sua moglie esce tutti i giorni a fare l’amore ed è dunque importante che il giorno vada bene a loro." (verbale 12 giugno 1985) In sostanza, dopo l'uscita della moglie con il figlio, il Mele avrebbe trovato due auto ad attenderlo, una del cognato M.C., una di Salvatore; dopo di che la scena si sarebbe svolta come narrato in precedenza, con l'aggiunta di Salvatore nel ruolo di sparatore, insieme al fratello Giovanni e, per chiudere, a lui stesso. Tutta la scena è intrinsecamente assurda, dalle due auto ai due sparatori, anzi tre, con un'unica pistola, ma chiaramente quanti più particolari si aggiungono da parte di una mente debole ed influenzabile, tanto più sarà poco verosimile il quadro risultante.
Torniamo ora al punto di domanda iniziale: la malattia accusata dal Mele la mattina del 21 agosto 1968 deve essere considerata un alibi precostituito e conseguentemente un indizio di colpevolezza?
Nella sezione di analisi del libro ho avanzato cinque ipotesi riguardo l'assassino di Signa, elencandole in ordine di probabilità (valutazione evidentemente soggettiva). In due di queste (l'esordio del serial killer e la pista siciliana) la figura del Mele è assente e il fatto che sia stato quella sera davvero a letto malato o meno è dunque del tutto ininfluente. Nell'ipotesi del marito tradito la malattia potrebbe naturalmente fungere da alibi, soprattutto se confermata dal figlio, ma tale ipotesi è, per la personalità del Mele, così improbabile che non mette conto considerarla. Rimangono, più o meno alla pari, le ipotesi degli amanti gelosi (i due fratelli Vinci) o quella del clan familiare, eventualmente in combutta con Salvatore, secondo quanto ricostruito dal Torrisi. Se si potesse credere, scegliendo fior da fiore, ad almeno uno dei racconti del Mele, bisognerebbe dire che la premeditazione e predisposizione degli alibi si accorda meglio, come è logico, con il delitto di clan piuttosto che con un delitto per gelosia alimentata da una scommessa persa o una sorta di spurio delitto d'onore da parte di un amante che "è vero marito". Ma per i limiti di attendibilità di tutte le dichiarazioni di Stefano Mele, dal 1968 al 1989, fin quando ve ne è traccia, è questa un'operazione impossibile: nessuna ricostruzione dei fatti può basarsi, in assenza di altri riscontri, sulle parole di Stefano. Se poi, indipendentemente dai vaneggiamenti del suddetto, il fatto della (forse finta) malattia abbia una valenza tale da convalidare l'ipotesi dell'omicidio premeditato da parte di altri soggetti con la partecipazione consapevole e volontaria del marito, ognuno dovrà deciderlo da sé.
(FINE)

sabato 16 agosto 2014

Ancora su Signa (3)

Vista del luogo del delitto dalla sponda opposta del Vingone

Proseguendo nella cronistoria, possiamo saltare all'estate 1982, quando dopo l'omicidio di Baccaiano in qualche maniera si scopre che l'arma del Mostro di Firenze era già stata usata a Signa e si apre la fase della "pista sarda". In prima battuta, il Mele, che ha scontato la pena da poco più di un anno, afferma, analogamente a quanto aveva fatto alla prima udienza del processo del 1970, la sua totale estraneità al fatto, adducendo di aver saputo dal figlio, già il 22 agosto, che ad uccidere era stato Francesco Vinci, ma di aver dapprima accusato il fratello Salvatore per paura di ritorsioni. E' presumibile che il diniego di responsabilità sia da attribuire al timore di subire un nuovo processo ed una condanna più grave, non rendendosi il Mele ben conto del fatto che non poteva essere giudicato due volte per lo stesso reato. Recederà da questa posizione solo dopo aver ottenuto un colloquio con il figlio Natale (il cui reale contenuto è ignoto), dopo il quale tornò a parlare di un omicidio combinato tra Francesco Vinci e lui stesso, pur non sapendone spiegare adeguatamente il movente, aggiungendo che la decisione era stata presa circa una settimana prima dell'omicidio. Si era nel frattempo più o meno accertata l'esistenza di una scommessa (in data non determinata e forse con annesso litigio) tra il Vinci e il Lo Bianco avente per oggetto i favori della Locci. In tale ottica, di delitto premeditato, potrebbe dunque tornare ad avere un senso la (presunta) malattia del Mele ai fini di crearsi un alibi; ma rimane valida la domanda: potevano i due complici sapere in anticipo che proprio quella sera la donna sarebbe uscita con il nuovo amante? Non vi sono elementi infatti per presumere che la serata al cinema fosse stata programmata in precedenza.

Nel gennaio 1984, dopo il delitto di Giogoli, l'attenzione degli inquirenti si sposta per forza di cose da Francesco Vinci ad altri componenti del clan sardo, in primis i parenti del Mele. Rosalia Barranca, vedova del Lo Bianco, ricorda un colloquio intervenuto, in occasione del processo di appello (1971) con il fratello di Stefano, Giovanni, nel quale questi le avrebbe detto "che gli dispiaceva per mio marito ma non per la cognata, giacché per loro la cognata era già morta prima che la si uccidesse", aggiungendo che "prima o dopo a qualcuno che era con lei sarebbe dovuto capitare". E' il primo, labile accenno ad un possibile complotto di famiglia per eliminare la donna. Il 24 gennaio viene sequestrato a Stefano, che, ad ennesima dimostrazione della sua inguaribile stupidità, lo conservava nel portafoglio, il famoso biglietto "Riferimento di Natale riguardo lo zio Pieto", con immediata nuova confessione di Stefano e, a ruota, mandato di cattura per i due cognati. Gli inquirenti sposano ora decisamente la pista del delitto di clan, premeditato ed organizzato dai cognati (e probabilmente sorelle) con la partecipazione di Stefano. In questa variante, l'alibi del marito, acquisito a mezzo della finta malattia, per quanto zoppicante, ha certamente un senso, che non avrebbe ove si accettasse una delle narrazioni precedenti (complicità con uno dei fratelli Vinci ed improvvisazione estemporanea del delitto).

(SEGUE)


Ancora su Signa (2)

Il lampione che guidò Natalino (o il suo misterioso accompagnatore)


Quando, essendo stato informato degli esiti degli esami del guanto di paraffina (negativo per Francesco Vinci, positivo per Carmelo Cutrona) Stefano Mele cambia versione, non altera, a quanto sembra, la narrazione degli eventi, limitandosi a sostituire il nome del Vinci F. con quello del Cutrona (da lui detto "Virgilio"). Insisterà poi con il nome del Cutrona, dandosi lui stesso per presente, ma non attivo partecipante, fino al 3 febbraio 1969, quando, essendo nel frattempo sottoposto a perizia psichiatrica (la quale accerterà "un'oligofrenia di medio grado con caratteropatia"), tornerà ad accusare, più o meno con le modalità già indicate Francesco Vinci. Tale versione, smentita solo nella prima dichiarazione del processo del 1970, verrà poi mantenuta, a quanto pare anche nei confronti di terzi (parenti, compagni di prigionia) fino alla riapertura delle indagini negli anni Ottanta (vedi seguito). In tutta questa fase, quindi, la premeditazione non ha posto alcuno, se non per il fugace accenno a proposito del progetto comune, suo e di Salvatore, di uccidere la moglie, manifestato il 24 agosto. Con l'occasione, conviene smentire anche una certa vulgata secondo la quale il crollo psicologico di Mele avviene in seguito al confronto con l'amante/dominante Salvatore. Sembra invece che sia bastato far conoscere al Mele che Salvatore, interrogato, aveva respinto ogni accusa, per indurlo a ritrattare, dicendo che l'assassino era Francesco, ma che non ne aveva (ancora) fatto il nome per paura. Più volte in seguito, pur accusando pervicacemente Francesco, il Mele dirà di essere stato minacciato affinché non parlasse, sia lui stesso che il bambino. La ben nota scena madre del confronto Stefano-Salvatore con lacrime e richiesta di perdono in ginocchio avviene dopo la ritrattazione. Analogo è l'iter del passaggio dell'accusa da Francesco Vinci a Cutrona, che è motivato unicamente dalla notizia ricevuta in merito all'esito del guanto di paraffina; il Mele dirà che non c'era alcun bisogno di porlo a confronto con Francesco e di voler sostituire semplicemente i due nomi, fermo restando il resto.


Chiunque sia il reale complice ed assassino, in una scena così strutturata, la malattia accusata la mattina non ha evidentemente alcun ruolo. In generale, occorrerebbe anche chiedersi se il giorno prima o al più tardi la mattina del delitto si poteva essere certi che quella sera la donna sarebbe uscita con il Lo Bianco; vi era un appuntamento fissato in precedenza di cui altri potevano essere a conoscenza? Molto dopo Mele giustificherà il tutto dicendo che comunque la donna usciva tutte le sere con qualcuno, per cui non c'era alcun problema di scegliere la giornata giusta…; una spiegazione che personalmente non trovo del tutto credibile.
(SEGUE)

venerdì 15 agosto 2014

Ancora su Signa

Vista verso Villa Castelletti dal luogo del delitto

Stimolato da ulteriori, accese discussioni sui forum, torno a parlare del delitto di Signa con qualche altra considerazione, che nel libro avevo omesso, più che altro per brevità.

La malattia di Stefano Mele la mattina del 21 agosto può essere facilmente interpretata come – invero goffo, in perfetta linea con il personaggio -, tentativo di crearsi un alibi per l'omicidio che doveva avvenire la sera: il che qualificherebbe chiaramente il delitto come premeditato, con la partecipazione e complicità – o quanto meno connivenza e consapevolezza, del Mele. In realtà, l'elemento della premeditazione uscirà decisamente fuori solo nella seconda fase delle sue "confessioni", quando, a partire dal 1984, verranno coinvolti prima i familiari e poi, per la seconda volta, Salvatore Vinci. In prima istanza (23 agosto), il Mele confessò di essere uscito per prendere una boccata d'aria (la malattia è evidentemente già acqua passata) e di aver casualmente incontrato il Salvatore, che, saputo che la Locci era uscita con il Lo Bianco, lo avrebbe incitato al delitto. Il giorno dopo invece dirà che già da qualche tempo lui e Salvatore avevano progettato di uccidere la Locci quando fosse stata colta con un amante.

Nella stessa giornata però sostituisce il nome di Salvatore con quello di Francesco, affermando di averlo incontrato mentre usciva dal bar La Posta (dove quella sera il Vinci, però, non era stato visto da alcuno); ecco quindi che nuovamente scompare la premeditazione – e perde di significato la pretesa malattia; che appare smentita anche dal farsi trovare dai CC la mattina dopo l'omicidio con le mani sporche di grasso (ma non doveva piuttosto essere "malato, a letto"?). Farà poi quel disgraziato accenno alla Lambretta – in confusione con un motorino – che probabilmente, insieme all'alibi fornito dalla moglie Vitalia, salverà Francesco Vinci dall'accusa di omicidio al processo del 1970. Nel 1982 affermerà invece che fu Vinci a venire a cercarlo a casa (probabilmente per appurare dove si fosse recata la coppia). Ancora in questa fase non vi è traccia di premeditazione, in quanto nel racconto di Mele l'iniziativa parte dal Vinci e il Mele lo segue in qualità di servo sciocco e sacrificabile: non vi è accordo tra i due, ma un rapporto di sudditanza del marito nei confronti dell'amante prepotente e geloso. Se questa versione fosse autentica, si potrebbe ipotizzare che il Mele non abbia neppure svelato che il figlio aveva seguito la coppia (l'uscita del bambino, a quanto sembra, era stata imprevista ed estemporanea).

(SEGUE)