giovedì 21 dicembre 2023

Psicologia della testimonianza

 

Le Consulenze tecniche del Prof. Sartori per il processo di revisione della Strage di Erba

A 17 anni dalla Strage di Erba e a 12 dalla condanna definitiva all'ergastolo, la vicenda processuale di Olindo Romano e Rosa Bazzi torna di attualità grazie ad una duplice richiesta di revisione in questi giorni all'esame della Corte d'Appello di Brescia. Da una parte un alto magistrato, il sostituto procuratore di Milano Cuno Tarfusser, dall'altra i difensori dei due condannati hanno chiesto di riesaminare le prove e rivedere la condanna per Olindo e Rosa. Esaminando la voluminosa perizia della difesa, coordinata dal professor Giuseppe Sartori, direttore del master di Neuropsicologia Forense dell'Università di Padova e sviluppata da 15 tra professori ed esperti di materie criminologiche, Speciale Tg1 ha realizzato: "Olindo e Rosa colpevoli imperfetti?" di Alessandro Gaeta, montaggio di Stefano Carpagnano. Concludono il reportage le rivelazioni di uno spacciatore tunisino e di un ex carabiniere che ha partecipato alle indagini.

https://www.raiplay.it/video/2023/12/Speciale-Tg1-a57adf01-50ec-4bb6-b255-29b6b94f48cd.html?wt_mc=2.app.cpy.raiplay_prg_Speciale+Tg1.&wt

 


Questo post potrebbe sembrare fuori argomento nel mio blog, ma non lo è del tutto. Lungi da me il voler ficcare il naso nella storia giudiziaria della strage di Erba, di cui so poco o nulla, ma alcune osservazioni fatte dagli esperti nel corso del programma in tema di: false confessioni, suggestionabilità dei soggetti con ritardo mentale, pressioni degli inquirenti, promesse incautamente fatte agli imputati, insorgere di falsi ricordi creduti veri si attagliano molto bene a personaggi e fatti della vicenda che qui ci occupa. I nomi di Stefano Mele, Pucci, Lotti, Ghiribelli non possono non venire alla mente.

Ricordo, anche en passant, le indagini sul caso Marta Russo, nel corso delle quali una testimone confidò telefonicamente a un amico: “E questi (ndr: si intende polizia giudiziaria e Pubblico Ministero) fino alle cinque del mattino hanno voluto assolutamente che dal subconscio... veramente dall’ano proprio del cervello, mi venisse in mente qualche faccia, qualche immagine...” ((da “Marta Russo. Di sicuro c’è solo che è morta” di Vittorio Pezzuto, pag. 81). Ma ohimé, sembra chiaro che dall’ano del cervello possano provenire solo ricordi, come dire, inquinati.

 

Qui il link alla pagina del prof. Sartori:  https://www.testimonianzapenale.com/

 

lunedì 18 dicembre 2023

Reimarus e l'ipotesi di Carlo Palego


 

Per favorirne la leggibilità ho riunito in un unico post alcuni recenti commenti inviatimi dal lettore che si firma “Reimarus”e concernenti l’ipotesi avanzata sui social e - a quanto ne so - in pubblici convegni, da Carlo Palego.

Il testo che segue è attribuibile in toto a Reimarus e sono intervenuto solo per scrivere in chiaro i nomi di diversi protagonisti, non ritenendo che nello scritto si possa ravvisare alcun contenuto diffamatorio nei confronti dei nominati.

Per quanto mi concerne, non ho intenzione di intervenire sulla teoria generale di Palego,sia per mancanza di competenza che di interesse. Tuttavia alcuni specifici aspetti possono essere, a mio giudizio, meritevoli di discussione e commento.

Spero di non dispiacere all’estensore di questi commenti e auguro buona lettura.

 

 Chiedo venia, ma leggo solo ora della richiesta che l'Autore del blog mi ha rivolto il 21 novembre. Debbo dire che, interessandomi alla materia solo da poco tempo e avendone una conoscenza enormemente inferiore a quella di appassionati che hanno letto una quantità di documenti, e un livello di coinvolgimento non paragonabile al loro, alcune supposizioni hanno ancora il potere di stupirmi. E' il caso di chi ha ipotizzato che lo scrivente sia un "alter ego" dell'Autore di questo blog ed anche il caso di chi, a quanto pare, sembra ritenere che lo scrivente abbia in materia prodotto altro oltre agli interventi su questo blog. Non è così e, se a ciò non si credesse, non so che cosa farci.

Il mio approccio alla vicenda è condizionato da un atteggiamento pregiudiziale che mi spinge a vederla come un caso catalogabile tra "inganni e imbrogli del Potere" (intesi in senso lato, tale da includere non necessariamente condotte dolose, ma anche condotte non esenti da colpa grave). Questo atteggiamento pregiudiziale è stato instillato dalla conoscenza (tramite letture) di vicende giudiziarie classificabili nella categoria delle "montature", da quelle a danno degli anarchici per le bombe sui treni e per la strage di piazza Fontana, a storie siciliane come quella dei carabinieri uccisi ad Alcamo Marina (non molto nota e rievocata nel libro edito da Chiarelettere "Alkamar" - una lettura allucinante) e l'altra relativa al "caso Scarantino", con la falsa pista creata e perseguita in ordine alla strage Borsellino, ed altre ancora (un altro caso è quello rievocato nel libro di Pablo Trincia "Veleno": un protagonista negativo di quell'incredibile e assolutamente inquietante vicenda ha potuto non da molto godere dell'assoluzione in appello).

Intendiamoci, per quanto riguarda il Mdf il "movente" dell'investimento di credibilità in soggetti che non la meritavano sta, per quanto - a mio avviso - si può dire allo stato delle conoscenze, semplicemente nella necessità di evitare un enorme danno reputazionale ad alcuni investigatori e ad alcuni magistrati inquirenti, nonché il connesso danno d'immagine alla "Giustizia" italiana, che non aveva certo bisogno di un altro caso Tortora. Un merito che riconosco all'approccio di uno studioso della vicenda che da una paio d'anni circa a questa parte vuol cercare di <<strappare la maschera al Mdf>> è quello di aver portato l'attenzione su alcuni aspetti che possono talora non ricevere la debita attenzione, anche per un senso di riverenza verso le autorità costituite e probabilmente anche per il timore di possibili reazioni ex art. 595 c.p.: così l'influenzabilità di magistrati da parte delle FF.OO., l’”affidabilità dei consulenti tecnici, la permeabilità degli uffici giudiziari anche a livello dei loro archivi correnti, eccetera.

Se, infine, l'Autore del blog mi consente un'ulteriore considerazione, banale ma non immeritevole di formulazione, la vicenda dei processi per i delitti cosiddetti del MdF è altresì una riprova del carattere "di classe" della giustizia penale. L'intellettuale Adriano Sofri con i suoi coimputati per l'uccisione di Luigi Calabresi ha visto una doppia sentenza conforme di condanna annullata dalle Sezioni Unite Penali della Cassazione per un insufficiente vaglio dell'attendibilità del "pentito" Leonardo Marino, un personaggio decisamente più credibile di Pucci e Lotti; nella stessa vicenda è poi stato concesso anche un giudizio di revisione. Per quanto anche in tal caso la condanna sia passata in giudicato, non può non colpire la diversità di trattamento, con reiterati dubbi a fronte di un accusatore ben più attendibile. Si pensi anche alla revisione concessa a Massimo Carlotto per l'assassinio di Margherita Magello e terminata con la conferma della condanna solo dopo una rocambolesca vicenda processuale. Non può stupire che si sia ritenuto non meritevole di altrettanti riguardi un modestissimo pensionato delle Poste, debitamente marchiato con lo stigma di condotte sessuali devianti.

Se si vuol provare a farsi un'idea di certi scenari, può essere utile il ragionamento per analogia. Ad esempio, si sa delle discrete pressioni esercitate su Sabrina Carmignani perché rendesse dichiarazioni che collocassero Vanni in circostanze di tempo e di luogo tali da far sospettare una partecipazione del postino al duplice omicidio degli Scopeti. Ci si può ben immaginare che, con un soggetto che prometteva di essere ben più determinante della Carmignani e anche più malleabile, come Giancarlo Lotti, gli inquirenti siano ricorsi a strategie volte a fargli rendere le dichiarazioni desiderate. Un ovvio indizio in tal senso è rappresentato dalla nota conversazione telefonica intercettata tra Lotti e Filippa Nicoletti e dalla rappresentazione che Lotti vi fa dell'operato degli inquirenti nei suoi riguardi (conversazione che Lotti significativamente a dibattimento volle sminuire o meglio smentire, e che nella motivazione della sentenza d'appello nel processo ai CdM è puramente e semplicemente, senza che di ciò si dia alcuna ragione e in difformità dal senso letterale delle parole, interpretata all'incontrario, come una sorta di dichiarazione confessoria da parte di Lotti). Comunque, a mio avviso, benché sia legittimo e opportuno che, in sede di ricostruzione storica, si avanzino ipotesi anche su questo aspetto, sul piano della valutazione critica delle risultanze giudiziarie il discorso si chiude dopo il rilievo dell'inverosimiglianza di quanto dichiarato, non potendo porsi a carico di chi non creda in dichiarazioni inverosimili l'onere di dimostrare quale sia stata la genesi di quelle dichiarazioni, ovvero come esse siano venute fuori.

Per il principio indicato come "rasoio di Occam", una delle cui formulazioni è "frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora", ritengo che in prima battuta l'ipotesi più probabile sia quella di un unico autore dei duplici omicidi quantomeno dal 1974 sino al 1985. L'analisi critica dei processi che si tennero fra 1994 e 2000 porta a concludere che lo stesso non sia alcuno degli imputati in tali processi. Ciò premesso, i rilievi di Carlo Palego. hanno, a mio avviso, una loro utilità in quanto evidenziano errori e lacune dell'attività d'indagine, al di là dell'interpretazione che ne dà Palego come frutto d'intenzionale depistaggio. L'interessante notazione per la quale un giudice che si occupò delle indagini su alcuni di questi delitti sarebbe stato, in buona sostanza, succube delle indicazioni investigative provenienti dai CC, con avvio della "pista sarda" poi archiviata nel 1989, porta alla mente un altro caso in cui "l'intuizione" degli inquirenti delle FF.OO., certamente non sospettabile di intenzione depistante, portò le indagini in un vicolo cieco, addirittura in quel caso prevalendo su una diversa opinione della magistratura. Si tratta del caso noto come "delitto della Cattolica, l'uccisione di una giovane donna, Simonetta Ferrero, in un bagno femminile dell'Università Cattolica di Milano nella tarda mattinata di sabato 24 luglio 1971. Da un ottimo studio di Alberto Miatello reperibile in rete si evince un particolare che le ricostruzioni della vicenda per lo più non menzionano: il giudice che per primo si occupò delle indagini su questo delitto riteneva che il colpevole andasse ricercato tra i quattro operai che stavano effettuando lavori nel piano inferiore a quello in cui si trovava il bagno in cui fu commesso l'omicidio, ma su tale sua opinione prevalse quella degli investigatori delle FF.OO., fermi nel ritenere che il responsabile fosse qualche palese "fuori di testa", con conseguente abbandono immediato della pista che puntava sui predetti operai e impegno totalitario delle indagini in una "pesca a strascico" di personaggi "strani" che non approdò a nulla. Nel suo articolo/saggio sul delitto in questione, Miatello delinea una scenario quantomai banale e plausibile circa la dinamica e dimostra come l'ipotesi di gran lunga più probabile (egli la ritiene pressoché certa) sia quella originariamente formulata dal magistrato che primo si occupò della vicenda. Tenendo conto del fatto che, da alcuni rilievi sulla scena del crimine, si ricava che l'omicida aveva un'altezza certamente superiore a m. 1,80 e di "almeno 1 metro e 85" (così un funzionario della Polizia Scientifica, in una trasmissione di Lucarelli dedicata al caso), all'epoca, come ancora oggi, ben superiore a quella media della popolazione maschile italiana, e che l'omicida, grondante sangue dopo aver accoltellato decine di volte la vittima, doveva necessariamente disporre della possibilità di un ricambio a sua immediata disposizione, la soluzione di questo "mistero italiano" parrebbe essere stata a portata di mano, ma le FF.OO. la pensavano diversamente....

Per quanto riguarda, poi, la supposta stranezza della conservazione di reperti che avrebbero dovuto essere distrutti dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna di Stefano Mele - altro elemento sul quale, tra gli altri, insiste Carlo Palego - non si può che rimandare (in tema di "irregolarità" della burocrazia giudiziaria italiana) alla lettura dell'articolo "Gli audio degli amici di Riina sono ancora qui" sul "Fatto Quotidiano" di oggi (nota: 9 dicembre 2023) alle pagg. 8-9, dal quale si evince che bobine che avrebbero dovuto essere tassativamente smagnetizzate nel 1997, con distruzione dei relativi brogliacci, ancora oggi, un quarto di secolo dopo, sono conservate con i relativi brogliacci (v. risposta dell'ex PM Gioacchino Natoli al giornalista Giuseppe Pipitone, a pag. 9).

Un altro caso è quello che è emerso in seguito alla rivisitazione delle indagini e dei processi sul fatto criminoso noto come "strage di Erba", per la quale è stata condannata in via definitiva una coppia di coniugi: nella recentissima pubblicazione di Monteleone-Priano "Erba", a pag. 199, si menziona "il quadro impietoso che emerge dalla relazione del Ministero della Giustizia e che sostanzialmente descrive il tribunale di Como, in particolare il suo ufficio corpi di reato, come un "porto di mare": reperti spariti, catene di custodia non documentate, una schizofrenica interpretazione delle linee guida sulla distruzione dei reperti per fare spazio negli scaffali".

Per quanto riguarda la partecipazione del G.I. Vincenzo Tricomi alla nascita della “pista sarda”, Palego afferma piuttosto apoditticamente il punto nel corso (la prima volta durante il minuto 55) del lungo video in https://www.youtube.com/watch?v=UfxREtr7rPs&t=2595s 
Nei commenti al video sopra linkato, ad un utente (angelosacco) che gli chiede conto dell'asserzione concernente la malleabilità del Tricomi, Palego risponde che questi "era conosciutissimo sia da Mannucci Benincasa che da Dell'Amico, su questo esistono documenti. Era uno poco acuto, di corta memoria (dimostrabilissimo), che si atteneva strettamente a ciò che gli diceva la propria funzione di PG senza mai prendere iniziative autonome (come invece la Della Monica aveva dimostrato di saper fare). Questo ovviamente non è certificato in documenti ufficiali. Tuttavia i fatti del 1982 confermano in pieno questo". Carlo Palego afferma che la Della Monica chiese, anche per iscritto, che le fosse trasmesso l'anonimo che richiamava il duplice omicidio del 1968 (sul presupposto che potesse essere stato spedito dal MdF), ma che non l'ebbe mai; egli ritiene, se ho ben inteso, che l'anonimo in questione semplicemente non sia mai esistito. Palego inoltre ritiene, come egli riepiloga nella risposta all'utente angelosacco nei commenti al video sopra linkato, che dal fascicolo relativo al processo per il duplice omicidio Locci-Lo Bianco siano stati fatti sparire i rilievi fotografici relativi ai reperti balistici esaminati nel 1968 da Zuntini e che il c.t. Ignazio Spampinato fosse ben consapevole che i reperti balistici ritrovati a Firenze nel 1982 avessero caratteristiche non compatibili con quelle descritte nella perizia Zuntini del 1968 relativa al duplice omicidio di Signa e che, in accordo con ufficiali dei CC, si decise "di sorvolare (cioè di non lasciare carte) su quel confronto" (la discrasia - afferma Palego - passò inosservata in seguito anche perché nessuno si è poi posto "il problema della verifica della provenienza dei reperti ritrovati a Firenze", per i quali - asserisce Palego - manca una catena di tracciamento che li riconduca con certezza al duplice omicidio del 1968 (secondo lui quei reperti sarebbero infatti stati infilati nel fascicolo del processo per il duplice omicidio del 1968 da o su mandato di ufficiali dei CC e non risalivano alla scena del crimine dell'epoca). Nel settantaquattresimo-settantacinquesimo minuto della sua allocuzione sopra linkata, Palego, polemizzando contro innominati mostrologi, invoca il "rasoio di Occam" e afferma che la vicenda del Mdf "ha bisogno di semplificazioni, non di astrusi ragionamenti".

mercoledì 11 ottobre 2023

L'alibi di Salvatore (2)

 

Vorrei aggiungere qualche breve considerazione rispetto a quanto scritto nell’ultimo post in merito all’alibi presentato da Salvatore nel 1968 e smentito da Nicola Antenucci 17 anni e rotti dopo i fatti.

Per far questo, mi occorre utilizzare un concetto che è proprio della critica biblica, quello di “Sitz im Leben” (e chiaramente lo faccio in omaggio a uno dei miei pochi lettori/commentatori che si firma “Reimarus”). Quindi cosa indica questa difficilmente traducibile espressione tedesca introdotta nell’esegesi dalla “Scuola delle forme”? Che per capire ogni documento letterario è necessario comprendere il contesto storico in cui nasce, il pubblico a cui è rivolto, lo scopo che si prefigge. Ora, nel caso del Rapporto Torrisi del 1986 siamo ben lungi da un testo letterario (anche se alcuni passi presentano notevole somiglianza con le bibliche invettive contro i vizi di Sodoma e Gomorra); però può essere interessante comunque inquadrarne il contesto.

Posto che la testimonianza in esame (Antenucci si presenta spontaneamente al G.I.) ha luogo il 18 ottobre 1985, possiamo ampliare un po’ il panorama delle indagini che erano  in corso in quel momento. Tramontata l’ipotesi Francesco Vinci dopo il duplice omicidio del 1983, controllato senza esito anche il figlio di Salvatore e sodale di Francesco, rimessi in libertà i due cognati dopo l’omicidio di Vicchio, rimaneva sull’agenda degli investigatori il solo Salvatore, giacché le sbrigative indagini del 1968-70 non fornivano ulteriori spunti, a parte alcuni nomi di soggetti siciliani forse in contatto con le due prime vittime.

Pertanto nel 1985 Salvatore Vinci è il primo sospettato, tanto più che dal maggio ‘85 Stefano Mele è tornato ad accusarlo; viene pedinato nei weekend e intercettato; senonché, proprio mentre è sotto sorveglianza avviene l’ultimo duplice omicidio, il che condurrà i CC all’amara conclusione “di non averlo controllato abbastanza bene” (in sostanza così Rotella pag. 154). A questo punto, vieppiù convinti gli inquirenti di venir menati per il naso da un callido e feroce assassino, nel mentre si intensificano - tardivamente -  i controlli già in atto, si torna al passato. E, come è noto il passato di Vinci vede la morte, in un caso violenta, nell’altro sospetta, di due donne a lui vicine: l’amante Barbara nel 1968 e  la moglie Barbarina nel 1960. E Mele,per quanto poco credibile, nel settembre 1985 dopo Scopeti, continua ad accusare Salvatore, questa volta insieme al proprio fratello Giovanni. 

 

Mario Spezi su La Nazione, ottobre 1985

 

 Quindi nell’ottobre 1985 prendono piede le indagini, in Sardegna e Lombardia, sul presunto suicidio di Barbarina Steri e si riesaminano, per l’ennesima volta, i fatti e i documenti del 1968. Per collegare l’omicidio del 1968 con la persona di Salvatore è però necessario smontare l’alibi presentato con successo a suo tempo, sia in corso di indagine sia nel processo del 1970 di cui abbiamo parlato nel post precedente. Potremmo supporre che proprio in questa critica temperie - in questo Sitz im Leben - a qualcuno degli inquirenti sia caduto l’occhio sullo strano verbale del 24 agosto 1968, in cui Nicola Antenucci aveva parlato inizialmente di una partita a biliardo avvenuta il martedì, facendosi poi convincere dal P.M. Capponnetto a correggere il giorno in mercoledì.  Nicola Antenucci viene risentito - dopo varie deposizioni, delle quali l’ultima del 1983, nelle quali aveva confermato quanto inizialmente dichiarato - il 16 ottobre e, nell’occasione, spiega come erano avvenuti gli interrogatori di cui è verbale, ma ancora a quanto sembra non è in grado di ricordare precisamente tutti gli avvenimenti della settimana; Torrisi non ci dice se tuttora confermi o meno le date più volte indicate, ma certo dei dubbi gli saranno venuti o gli saranno stati fatti venire.

Passano due giorni e ad Antenucci, il 18 ottobre, torna, per fortuita ed inspiegabile combinazione (cit.), la memoria totale, esaustiva e definitiva della settimana; l’abbiamo già descritta.

Ora, chiunque abbia qualche vaga nozione del funzionamento della memoria non può non essere scettico in merito al miracoloso recupero della memoria di Antenucci, per quanto avvenuto “dopo aver attentamente meditato” (Torrisi) per due giorni (1). Volendo credergli, si dovrebbe pensare piuttosto che lo sapesse dall’inizio e per questo ne avesse conservata precisa memoria. Ma allora, sorge la domanda, se voleva fornire l’alibi al nuovo amico, perché non fornirlo a puntino, per il giorno giusto? Questa domanda resta, a mio avviso, aperta.

 

(1) Chi è interessato ad approfondire l’argomento può documentarsi, oltre che sui libri già classici della prof.ssa Giuliana Mazzoni, sull’ampio materiale presente nei siti https://www.societadipsicologiagiuridica.org/ e https://www.testimonianzapenale.com/