martedì 30 settembre 2014

Giancarlo Lotti, collaboratore di giustizia

Mentre prosegue la preziosa trascrizione delle udienza del processo ai Compagni di Merende (1997-98) su Insufficienza di Prove, Paolo Cochi ha messo a disposizione sul proprio canale Youtube la videocassetta contenente la registrazione dell'arringa finale del difensore di Vanni avvocato Mazzeo (04.03.1998). In questo interessantissimo documento, (che finora non era stato diffuso in quanto Radio Radicale non ha pubblicato le registrazioni audio del processo di I grado, ma solo di quello di appello) Mazzeo affronta, in maniera a mio giudizio, molto chiara ed efficace, alcune problematiche centrali in quel processo, inerenti la valutazione della confessione, della chiamata in correità, degli indizi o riscontri esterni.
Vale la pena, per chi non avesse il tempo o la pazienza di ascoltare tutto l'intervento del difensore, riportarne qui alcuni punti.
Questa di seguito è la parte introduttiva, in cui Mazzeo cita ampiamente la fondamentale Sentenza 1653/93 (caso Sofri-Marino). Per maggior chiarezza metto in corsivo le citazioni e tra parentesi i commenti estemporanei dell'avvocato.

La Corte di Cassazione su questo argomento così delicato, così infido come la chiamata di correo ha ritenuto opportuno pronunciarsi a Sezioni Unite e ha formulato una regola di giudizio (…) è il caso Sofri, sentenza Marino + altri (…) dove la Suprema Corte dice:
"I problemi relativi all'interpretazione dell'art. 192 comma 3 del C.P.P. vigente, per la parte concernente la corretta valutazione della chiamata in correità, unitamente agli elementi di prova che ne confermano l'attendibilità, presuppone nell'ordine logico la risoluzione degli interrogativi che la stessa chiamata in correità in sé considerata pone, sotto un duplice aspetto (…): in primo luogo occorre sciogliere il problema della credibilità del dichiarante (il problema della credibilità del Lotti, confidente e accusatore, ha confessato e accusato) in relazione alla sua personalità, alle sue condizioni socio-economiche e familiari , al suo passato, ai rapporti con i chiamati in correità (rapporti Lotti-Vanni, per esempio), e alla genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione e all'accusa dei coautori e complici  (il catartico sentimento di autoliberazione di cui si parlava prima. Quindi allora, primo esame che deve fare il giudice: la credibilità; (…) In secondo luogo, dice la Cassazione), il problema della verifica della intrinseca consistenza e delle caratteristiche delle sue dichiarazioni (Allora: intanto vediamo la persona, poi vediamo cosa ci dice…) alla luce dei criteri che l'esperienza giurisprudenziale ha individuato (e quali sono i criteri per stabilire se il racconto del Lotti ha l'apparenza della verità, è incredibile o credibile? I criteri sono): precisione, coerenza, costanza, spontaneità ( e così via. Avete notato che non mette più disinteresse…) Ovviamente i problemi ora accennati e quelli relativi ai riscontri cosiddetti esterni o oggettivi, concettualmente distinti, possono concretamente intrecciarsi e tuttavia il giudice deve compiere l'esame seguendo l'ordine logico sopra indicato (personalità, attendibilità, credibilità, veridicità delle sue narrazioni, riscontri oggettivi) perché non si può procedere ad una valutazione unitaria della chiamata in correità unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si addensano sulla chiamata in sé, (…) indipendentemente dagli elementi di verifica esterni ad essa.  
(SEGUE)

mercoledì 24 settembre 2014

Il dilemma del giudice (4)

Daniele Propato (foto da Insufficienza di Prove)

Abbiamo così ripercorso fino all'ultimo capitolo significativo – penso che il "dopo CdM" scada davvero nel tragicomico - questa tormentata storia processuale che i magistrati, inquirenti e giudicanti, determinano e nel contempo subiscono. L'abbandono della "pista sarda" impedisce di comprendere la genesi del Mostro di Firenze, tagliando fuori il primo, fondamentale episodio, nonostante un tentativo – fallito - di reinserirlo nel quadro d'insieme nel 1994. Per ironia della sorte, quella che doveva essere la "prova regina", l'arma dei delitti, tanto a lungo ricercata, persino sottoterra, è proprio "l'anello mancante" della vicenda processuale; ma né il commissario Giuttari né il Procuratore Vigna se ne preoccupano particolarmente (vedi interviste). La "fissazione" investigativa su Pietro Pacciani, il suo precario successo in primo grado, costringono, prima ancora che arrivi la prevista sconfitta in appello, ad allargare il quadro ai presunti complici, poiché Pacciani non può non essere colpevole e non si può non essere in grado di dimostrarlo; l'affannarsi e accanirsi su personaggi intellettualmente deboli, ampiamente malleabili, dà ben presto i suoi frutti. Chi non pensa che uno tosto come il commissario Giuttari, aduso alla lotta alla criminalità organizzata, di due scemi di paese ne farà un solo boccone e li farà cantare come canarini? E' una vittoria della giustizia?
Il meccanismo però è ad orologeria e va avanti da solo con regole sue proprie; per ben tre volte è la pubblica accusa stessa a sconfessare le acquisizioni proposte dalla magistratura inquirente (si parla di Tony: appello Pacciani; di Iannelli: Cassazione Pacciani; di Propato: appello Compagni di Merende). Ma due volte su tre i giudici condannano (o annullano l'assoluzione), contro le richieste dell'accusa: se non è un unicum, poco ci manca. Qualcuno sembra preferire di non sapere: la Corte di Assise d'Appello nulla sa né vuol sapere della lettera con il brandello di seno giunta alla Della Monica (vedere Sentenza pag. 186); la Corte di Cassazione addirittura ritiene che i primi tre duplici omicidi (Locci-Lo Bianco, Pettini-Gentilcore, Foggi-De Nuccio) nulla abbiano a che fare con il Mostro di Firenze (vedere Sentenza pag. 7). Ignorare è a volte più comodo di dover spiegare quello che spiegare non si può.

In conclusione, nella migliore delle ipotesi, sei omicidi su sedici sono rimasti senza colpevole; nella peggiore, è stata aggiunta al conto qualche ulteriore vittima.

martedì 23 settembre 2014

Il dilemma del giudice (3)



Ancora più gravosa è la scelta dei giudici della Corte di Assise di Appello che devono giudicare in secondo grado Vanni, Lotti e Faggi (quest'ultimo assolto già in primo grado). Il Lotti, infatti, non ha impugnato la sentenza per quanto riguardava la sua partecipazione ai delitti, ma solo per la misura della pena – oltre a richiedere (ma ci sarebbe voluto il rinvio alla Corte Costituzionale) il trattamento di favore riservato ai "collaboratori di giustizia". Nella parziale rinnovazione del dibattimento (dedicata alla vicenda della doppia assicurazione del 128 rosso e del 124) Lotti difende pervicacemente, si potrebbe dire "con le unghie e con i denti", la propria colpevolezza; e di questo atteggiamento bisognerà pur chiedersi il motivo (ne parleremo un'altra volta). Come dice il P.G. Propato in requisitoria, pur convinto che l'imputato sia estraneo ai fatti di cui si autoaccusa, "per Lotti il discorso è tragicamente breve", sarà possibile concedergli unicamente uno sconto di pena: richiede infatti 18 anni di reclusione a fronte dei 30 che gli aveva inflitto la corte di Assise. Riassumiamo: il rappresentante dell'accusa non crede alla bontà dei testimoni, ma senza le testimonianze Lotti e Pucci il processo ai CdM non è altro che aria fritta. Coerentemente, Propato richiede alla Corte l'assoluzione di Vanni (per sostanziale mancanza di prove), ma non può richiedere l'assoluzione di Lotti, poiché è l'imputato stesso a non aver contestato la condanna ricevuta in primo grado, se non per la misura. Se la Corte si adeguasse alla richiesta otterremmo la seguente mostruosità giuridico-pratica: Vanni assolto, forse definitivamente, Lotti, che nella coscienza dell'opinione pubblica aveva ormai assunto il ruolo, concordemente sostenuto da inquirenti e stampa, di collaboratore, che aveva, dopo molti tormenti interiori, portato a risolvere il caso, in galera; pur ritenendo la giustizia, a chiare lettere, che in realtà nulla sapesse degli omicidi. Si aggiunga Pacciani, per quasi tutti all'epoca Mostro di Firenze –da solo o in compagnia - morto da un pezzo senza sentenza definitiva quindi formalmente innocente. Di più, non credere a Lotti significa ammettere, da parte dell'apparato poliziesco e giudiziario, di non aver saputo trovare il colpevole dei delitti, come già in primo grado aveva chiosato Vanni: "Io non ho fatto niente, loro non sono stati boni di trovare il Mostro". Il dilemma è ben spiegato nell'arringa finale dall'avvocato di parte civile Prof. Voena: "però, però, c'è un però, andiamo a spiegare alla gente al di fuori di queste aule per un problema di giudicato implicito - non è applicabile il 129 - quindi un soggetto che ha superato il vaglio di un giudizio di primo grado e che chiama altri in correità deve essere condannato a 18 anni... per essere autore di fatti materiali che i concorrenti che lui indicava, anzi i veri autori, non devono essere puniti... sarà difficile spiegarlo alla gente purtroppo ed è un compito al quale potete sottrarvi" (udienza del 20 maggio 1999). Di fronte a questa prospettiva, Vanni diventa un vaso di coccio sacrificabile con qualche acrobazia logica e verbale. Da qui la condanna ad entrambi gli imputati che effettivamente chiude il caso (la successiva sentenza di Cassazione mette vergogna a leggerla e non ne parliamo qui).

(SEGUE)

lunedì 22 settembre 2014

Il dilemma del giudice (2)


Dopo una sentenza di assoluzione che la Cassazione avesse reso definitiva, non si sarebbe più potuto processare Pacciani per i delitti (in ossequio al principio giuridico del ne bis in idem), ma eventualmente solo per associazione a delinquere; mentre i suoi complici, ove il processo li avesse trovati colpevoli (come in seguito effettivamente avverrà), avrebbero scontato la pena di giustizia che il Pacciani, grazie ad un meccanismo giudiziario tanto apparentemente logico quanto sostanzialmente perverso, sarebbe riuscito ad evitare. C'erano delle testimonianze (ossia prove dirette) in un processo che era stato fino ad allora meramente indiziario ed era opportuno che tali testimonianze venissero valutate da un giudice; il che la corte di Appello avrebbe potuto fare ex initio, se il giudice Ferri non si fosse impuntato in maniera irragionevole in un rifiuto assoluto di ascoltare i testi che la Procura aveva reperito in corso d'opera. E' difficile in questo caso dar torto alla Corte di Cassazione che, contro la richiesta di rigetto del ricorso proposta dal P.M. Iannelli, rinviò ad un nuovo processo di appello; ma tale processo, essendo comunque di secondo grado, non sarebbe potuto coincidere con quello dei Compagni di Merende, del quale doveva ancora essere celebrato il primo grado. Da questa discrasia si origina, come si sa, tutta una serie di conseguenze negative per l'imputato Vanni e, in ultima analisi, per la giustizia.

 Altro dilemma si presentò ai giudici del processo ai Compagni di Merende (1997-98), confrontati con le confessioni del Lotti. Già detto del valore probatorio della confessione quando dettagliata, spontanea, coerente e costante (ci si può continuare ad infinitum a chiedere se le dichiarazioni del Lotti avessero queste caratteristiche, ma tant'è, il discorso in tali termini, affidato com'è al principio del libero convincimento del giudice, rimane sterile), la questione principale era se credere alle chiamate in correità, in quasi assoluta mancanza di riscontri esterni. Ove non si fosse creduto al reo chiamante in correità, il risultato sarebbe stato la condanna del Lotti e l'assoluzione del Vanni – essendo Pacciani deceduto per cause naturali nel corso di quel processo senza che si potesse quindi giungere al nuovo appello nei suoi confronti. Ma era del tutto evidente che il Lotti assassino (non me ne vogliano gli amici che propugnano l'ipotesi di Lotti serial killer unico Mostro di Firenze) non poteva stare in piedi senza il Pacciani capo-congrega ed il Vanni come suo deuteragonista. Sarebbe stata una conclusione del tutto ridicola ed inadeguata ad indagini condotte per lunghissimo tempo con grande impegno di mezzi e ancor maggiore clamore mediatico. E d'altra parte, il processo dipende in tutto e per tutto dal Lotti, come dimostra la scelta molto accorta della Procura di limitare l'azione penale agli ultimi cinque duplici omicidi, quelli sui quali il Lotti, bene o male, ha qualcosa da dire. Più volte nella lettura della trascrizione delle udienze (attualmente in corso su Insufficienza di prove) si ha l'impressione che il presidente della corte d'Assise nutra un certo scetticismo nei confronti dei due testimoni principali; i difensori di Mario Vanni giocheranno tutte le proprie carte puntando sulla svalutazione delle testimonianze; e tuttavia, a conclusione del processo, ci sarà una sentenza che accoglierà, almeno per i due imputati principali, tutte le richieste dell'accusa. Un osservatore smaliziato potrebbe avvertire, diversamente da Renzo Rontini che sentiva "odore di giustizia", un fumus di ragion di Stato.

(SEGUE)

domenica 21 settembre 2014

Il dilemma del giudice


Nel corso degli anni sia gli inquirenti che i giudici si trovarono di fronte a veri e propri dilemmi, ai quali ciascuno reagì in modo diverso. Valga ad esempio iniziale la dicotomia che si verificò sulla prosecuzione della "pista sarda" dopo il delitto di Vicchio, con Ufficio Istruzione, il PM Izzo ed i carabinieri del colonnello Torrisi a seguire pervicacemente quella che non era più una pista, ma un sentiero accidentato appuntando l'attenzione su Salvatore Vinci, mentre i PM Vigna, Fleury e Canessa con la SAM andavano in cerca di soluzioni diverse (ma quali in realtà fossero, non è ben chiaro). Lo stesso G.I. Rotella ci pensò su due mesi abbondanti (da ottobre a fine dicembre 1989) prima di prosciogliere, su richiesta della Procura, Salvatore Vinci, oltre a tutti gli altri indagati per i duplici omicidi: e si sforzò in sentenza di far capire a chiare lettere che il motivo per cui l'imputato non veniva rinviato a giudizio eraunicamente, anche se in vigenza del nuovo c.p.p. non si poteva più scrivere, la vecchia e pilatesca "insufficienza di prove".

Più avanti, quando si celebreranno processi nei diversi gradi, la scelta diventerà più drammatica. Il giudice Ferri è ben convinto dell'innocenza di Pietro Pacciani, o meglio della labilità degli indizi raccolti a suo carico, come esporrà, oltre che nella sentenza (in effetti scritta dal giudice a latere Carvisiglia) in un suo volume di tono polemico; eppure anch'egli valuta e soppesa tra l'aspettativa di giustizia dei congiunti delle vittime ed il diritto dell'imputato ad avere un giusto processo ed ottenere una giusta sentenza. Ma sembra quella l'ultima volta in cui le ragioni del diritto prevalgono senza problemi davanti a quelle di opportunità e necessità che nel seguito diverranno, piaccia o no, prevalenti.

Già la sentenza di Cassazione Pacciani, che, comunque sulla base di valide argomentazioni giuridiche, annulla l'assoluzione e rinvia a nuovo processo di appello, ne è prova. La sentenza interviene il 12 dicembre 1996; a quell'epoca Lotti ha già fornito ampia confessione supportata da chiamate in correità e la consulenza Fornari-Lagazzi lo ha definito lucido, vigile, cosciente, pur se non intellettualmente brillante: in poche parole, può testimoniare (ugualmente hanno detto i consulenti del P.M. per il teste Alfa, Fernando Pucci); ed era evidente che si sarebbe andati ad un nuovo processo, contro Vanni e Lotti, per quei fatti per cui era stato processato – ed assolto in appello – Pietro Pacciani. Ora, quale sarebbe stata la pratica conseguenza di una conferma della sentenza di appello in Cassazione?

(SEGUE)

domenica 7 settembre 2014

Aggiornamento


Dati i primi, incerti colpi di tastiera al secondo volume della "Storia del Mostro di Firenze – I delitti", ancora con il dubbio se non sia meglio passare direttamente al terzo, "Storia del Mostro di Firenze – I processi". Sarà un lavoro non da poco, che dovrà coesistere con altre attività di scrittura e di editing. Ci vorrebbe un'invocazione a Clio, Musa della Storia; ma non sono in grado di scriverla :-(.