venerdì 15 agosto 2014

Ancora su Signa

Vista verso Villa Castelletti dal luogo del delitto

Stimolato da ulteriori, accese discussioni sui forum, torno a parlare del delitto di Signa con qualche altra considerazione, che nel libro avevo omesso, più che altro per brevità.

La malattia di Stefano Mele la mattina del 21 agosto può essere facilmente interpretata come – invero goffo, in perfetta linea con il personaggio -, tentativo di crearsi un alibi per l'omicidio che doveva avvenire la sera: il che qualificherebbe chiaramente il delitto come premeditato, con la partecipazione e complicità – o quanto meno connivenza e consapevolezza, del Mele. In realtà, l'elemento della premeditazione uscirà decisamente fuori solo nella seconda fase delle sue "confessioni", quando, a partire dal 1984, verranno coinvolti prima i familiari e poi, per la seconda volta, Salvatore Vinci. In prima istanza (23 agosto), il Mele confessò di essere uscito per prendere una boccata d'aria (la malattia è evidentemente già acqua passata) e di aver casualmente incontrato il Salvatore, che, saputo che la Locci era uscita con il Lo Bianco, lo avrebbe incitato al delitto. Il giorno dopo invece dirà che già da qualche tempo lui e Salvatore avevano progettato di uccidere la Locci quando fosse stata colta con un amante.

Nella stessa giornata però sostituisce il nome di Salvatore con quello di Francesco, affermando di averlo incontrato mentre usciva dal bar La Posta (dove quella sera il Vinci, però, non era stato visto da alcuno); ecco quindi che nuovamente scompare la premeditazione – e perde di significato la pretesa malattia; che appare smentita anche dal farsi trovare dai CC la mattina dopo l'omicidio con le mani sporche di grasso (ma non doveva piuttosto essere "malato, a letto"?). Farà poi quel disgraziato accenno alla Lambretta – in confusione con un motorino – che probabilmente, insieme all'alibi fornito dalla moglie Vitalia, salverà Francesco Vinci dall'accusa di omicidio al processo del 1970. Nel 1982 affermerà invece che fu Vinci a venire a cercarlo a casa (probabilmente per appurare dove si fosse recata la coppia). Ancora in questa fase non vi è traccia di premeditazione, in quanto nel racconto di Mele l'iniziativa parte dal Vinci e il Mele lo segue in qualità di servo sciocco e sacrificabile: non vi è accordo tra i due, ma un rapporto di sudditanza del marito nei confronti dell'amante prepotente e geloso. Se questa versione fosse autentica, si potrebbe ipotizzare che il Mele non abbia neppure svelato che il figlio aveva seguito la coppia (l'uscita del bambino, a quanto sembra, era stata imprevista ed estemporanea).

(SEGUE)

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