martedì 23 settembre 2014

Il dilemma del giudice (3)



Ancora più gravosa è la scelta dei giudici della Corte di Assise di Appello che devono giudicare in secondo grado Vanni, Lotti e Faggi (quest'ultimo assolto già in primo grado). Il Lotti, infatti, non ha impugnato la sentenza per quanto riguardava la sua partecipazione ai delitti, ma solo per la misura della pena – oltre a richiedere (ma ci sarebbe voluto il rinvio alla Corte Costituzionale) il trattamento di favore riservato ai "collaboratori di giustizia". Nella parziale rinnovazione del dibattimento (dedicata alla vicenda della doppia assicurazione del 128 rosso e del 124) Lotti difende pervicacemente, si potrebbe dire "con le unghie e con i denti", la propria colpevolezza; e di questo atteggiamento bisognerà pur chiedersi il motivo (ne parleremo un'altra volta). Come dice il P.G. Propato in requisitoria, pur convinto che l'imputato sia estraneo ai fatti di cui si autoaccusa, "per Lotti il discorso è tragicamente breve", sarà possibile concedergli unicamente uno sconto di pena: richiede infatti 18 anni di reclusione a fronte dei 30 che gli aveva inflitto la corte di Assise. Riassumiamo: il rappresentante dell'accusa non crede alla bontà dei testimoni, ma senza le testimonianze Lotti e Pucci il processo ai CdM non è altro che aria fritta. Coerentemente, Propato richiede alla Corte l'assoluzione di Vanni (per sostanziale mancanza di prove), ma non può richiedere l'assoluzione di Lotti, poiché è l'imputato stesso a non aver contestato la condanna ricevuta in primo grado, se non per la misura. Se la Corte si adeguasse alla richiesta otterremmo la seguente mostruosità giuridico-pratica: Vanni assolto, forse definitivamente, Lotti, che nella coscienza dell'opinione pubblica aveva ormai assunto il ruolo, concordemente sostenuto da inquirenti e stampa, di collaboratore, che aveva, dopo molti tormenti interiori, portato a risolvere il caso, in galera; pur ritenendo la giustizia, a chiare lettere, che in realtà nulla sapesse degli omicidi. Si aggiunga Pacciani, per quasi tutti all'epoca Mostro di Firenze –da solo o in compagnia - morto da un pezzo senza sentenza definitiva quindi formalmente innocente. Di più, non credere a Lotti significa ammettere, da parte dell'apparato poliziesco e giudiziario, di non aver saputo trovare il colpevole dei delitti, come già in primo grado aveva chiosato Vanni: "Io non ho fatto niente, loro non sono stati boni di trovare il Mostro". Il dilemma è ben spiegato nell'arringa finale dall'avvocato di parte civile Prof. Voena: "però, però, c'è un però, andiamo a spiegare alla gente al di fuori di queste aule per un problema di giudicato implicito - non è applicabile il 129 - quindi un soggetto che ha superato il vaglio di un giudizio di primo grado e che chiama altri in correità deve essere condannato a 18 anni... per essere autore di fatti materiali che i concorrenti che lui indicava, anzi i veri autori, non devono essere puniti... sarà difficile spiegarlo alla gente purtroppo ed è un compito al quale potete sottrarvi" (udienza del 20 maggio 1999). Di fronte a questa prospettiva, Vanni diventa un vaso di coccio sacrificabile con qualche acrobazia logica e verbale. Da qui la condanna ad entrambi gli imputati che effettivamente chiude il caso (la successiva sentenza di Cassazione mette vergogna a leggerla e non ne parliamo qui).

(SEGUE)

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