lunedì 22 settembre 2014

Il dilemma del giudice (2)


Dopo una sentenza di assoluzione che la Cassazione avesse reso definitiva, non si sarebbe più potuto processare Pacciani per i delitti (in ossequio al principio giuridico del ne bis in idem), ma eventualmente solo per associazione a delinquere; mentre i suoi complici, ove il processo li avesse trovati colpevoli (come in seguito effettivamente avverrà), avrebbero scontato la pena di giustizia che il Pacciani, grazie ad un meccanismo giudiziario tanto apparentemente logico quanto sostanzialmente perverso, sarebbe riuscito ad evitare. C'erano delle testimonianze (ossia prove dirette) in un processo che era stato fino ad allora meramente indiziario ed era opportuno che tali testimonianze venissero valutate da un giudice; il che la corte di Appello avrebbe potuto fare ex initio, se il giudice Ferri non si fosse impuntato in maniera irragionevole in un rifiuto assoluto di ascoltare i testi che la Procura aveva reperito in corso d'opera. E' difficile in questo caso dar torto alla Corte di Cassazione che, contro la richiesta di rigetto del ricorso proposta dal P.M. Iannelli, rinviò ad un nuovo processo di appello; ma tale processo, essendo comunque di secondo grado, non sarebbe potuto coincidere con quello dei Compagni di Merende, del quale doveva ancora essere celebrato il primo grado. Da questa discrasia si origina, come si sa, tutta una serie di conseguenze negative per l'imputato Vanni e, in ultima analisi, per la giustizia.

 Altro dilemma si presentò ai giudici del processo ai Compagni di Merende (1997-98), confrontati con le confessioni del Lotti. Già detto del valore probatorio della confessione quando dettagliata, spontanea, coerente e costante (ci si può continuare ad infinitum a chiedere se le dichiarazioni del Lotti avessero queste caratteristiche, ma tant'è, il discorso in tali termini, affidato com'è al principio del libero convincimento del giudice, rimane sterile), la questione principale era se credere alle chiamate in correità, in quasi assoluta mancanza di riscontri esterni. Ove non si fosse creduto al reo chiamante in correità, il risultato sarebbe stato la condanna del Lotti e l'assoluzione del Vanni – essendo Pacciani deceduto per cause naturali nel corso di quel processo senza che si potesse quindi giungere al nuovo appello nei suoi confronti. Ma era del tutto evidente che il Lotti assassino (non me ne vogliano gli amici che propugnano l'ipotesi di Lotti serial killer unico Mostro di Firenze) non poteva stare in piedi senza il Pacciani capo-congrega ed il Vanni come suo deuteragonista. Sarebbe stata una conclusione del tutto ridicola ed inadeguata ad indagini condotte per lunghissimo tempo con grande impegno di mezzi e ancor maggiore clamore mediatico. E d'altra parte, il processo dipende in tutto e per tutto dal Lotti, come dimostra la scelta molto accorta della Procura di limitare l'azione penale agli ultimi cinque duplici omicidi, quelli sui quali il Lotti, bene o male, ha qualcosa da dire. Più volte nella lettura della trascrizione delle udienze (attualmente in corso su Insufficienza di prove) si ha l'impressione che il presidente della corte d'Assise nutra un certo scetticismo nei confronti dei due testimoni principali; i difensori di Mario Vanni giocheranno tutte le proprie carte puntando sulla svalutazione delle testimonianze; e tuttavia, a conclusione del processo, ci sarà una sentenza che accoglierà, almeno per i due imputati principali, tutte le richieste dell'accusa. Un osservatore smaliziato potrebbe avvertire, diversamente da Renzo Rontini che sentiva "odore di giustizia", un fumus di ragion di Stato.

(SEGUE)

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