giovedì 2 ottobre 2014

Giancarlo Lotti, collaboratore di giustizia (3)


Sentiamo ora cosa dice l'avvocato Mazzeo sulla valenza giudiziaria della confessione.

 "Se c'è una prova, un mezzo di prova che è veramente delicatissimo, e queste sono parole della suprema Corte di Cassazione, è proprio la confessione. (…) E quindi, la confessione non è quella specie di meccanismo automatico o semiautomatico che vi ha descritto il Pubblico Ministero, è un mezzo di prova delicatissimo perché le motivazioni che possono indurre una persona, in un giudizio penale, ad andare in qualche modo contro natura accusandosi, perché l'istinto naturale, primordiale dell'uomo è quello di difendersi, non di accusarsi, quello di negare le proprie responsabilità, non di ammetterle, quindi ci troviamo già di fronte ad una situazione in cui il giudizio deve essere particolarmente sveglio, ecco, c'è uno che confessa, la prima regola, la prima regola vorrei dire pratica, di buon senso comune, non di giudizio positivo, è di dire: ma perché confessa costui? Chiediamoci perché? Se lo chiede molto bene, dai tempi dei tempi, il legislatore che ha previsto infatti nel codice penale il reato di autocalunnia. L'autocalunnia è la fattispecie in cui c'è un soggetto il quale falsamente confessa di essere colpevole di qualche reato. Il legislatore l'ha previsto questo come figura autonoma di reato contro l'amministrazione della giustizia, perché chi confessa falsamente di aver commesso un reato in pratica intralcia il libero corso della giustizia, perché magari distoglie l'attenzione degli inquirenti e dei giudici dal vero colpevole. Quali sono le motivazioni che possono spingere una persona a confessarsi colpevole? Esemplificazioni di (false) confessioni dovute ad infermità di mente, altro squilibrio psichico, a fanatismo, ad auto- ed etero-suggestione, a ragioni di lucro, a spirito di omertà. (…) Noi siamo qui per stabilire se la confessione che riguarda questo processo è vera o falsa. (…) Dice la Cassazione in quella sentenza 26 settembre 1996 n. 8724: <<La valutazione delle dichiarazioni confessorie dell'imputato ai fini del giudizio di responsabilità a suo carico deve essere condotta e motivata in base ai criteri elencati nel I comma dell'art. 192>> quando si dice appunto << il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati>> niente riscontri oggettivi, non necessariamente, una confessione può essere ritenuta valida, vera, al di là dei riscontri oggettivi, semplicemente alla base di una valutazione congrua, evidentemente, e logicamente corretta della credibilità intrinseca e della attendibilità intrinseca, non estrinseca, senza riscontri, di colui che si confessa (colpevole). Per esempio una confessione evidentemente frutto di un catartico sentimento di espiazione – e questo certamente non è il caso del Lotti – quella potrebbe essere considerata sufficiente, di per sé, senza bisogno di riscontri, una prova sufficiente a fondare la condanna di chi? Di colui che si confessa colpevole, cioè a dire del Lotti, per tornare a noi. (…) Dice la Cassazione (…): <<Ne consegue che la confessione può essere posta a base del giudizio di colpevolezza nell'ipotesi in cui il giudice ne abbia favorevolmente apprezzato la veridicità, la genuinità, l'attendibilità, fornendo le ragioni per cui deve respingersi ogni intento autocalunniatorio o di intervenuta costrizione del soggetto.>>

Il quadro è abbastanza chiaro. Di mio, aggiungo una citazione da un articolo del giurista Franco Cordero (La confessione nel quadro decisorio): <<In quanto atto narrativo dell'imputato la confessione è una prova: nessun dubbio che sia una prova. Può darsi che sia una prova che non vale niente, da cui un giudice attento non si lascia persuadere, ma è una prova. E' una prova, ma una prova sospetta; sospetta perché, a differenza del testimone l'imputato non è obbligato a rispondere in modo veridico, non rischia niente qualunque cosa dica. (…) quindi è molto importante studiare i motivi, puri o impuri, che lo inducono a parlare in quel senso>>.

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